Purtroppo, per quanta robuccia possa via via
venir fuori grazie al più improbabile dei Pelacchi, non c'è comunque storia.
Adesso puoi filmarti mentre vivi e ognuno lascerà il video della sua vita. Noi
no. Argh. Molti coetanei sfigati mi hanno detto che è meglio così, con la
memoria idealizzante e selettiva, ma io so cosa si perde il mondo e ci sclero
sconsolatamente.
Proviamo dunque a resipiscere in peracta,
in una serie di apposite quanto estemporanee sezioni numerate: questa la prima
in offerta speciale. Tre schiaffi e affare fatto. Ho pagato i miei debiti,
tempo dopo tempo. Ho fatto la mia sentenza, ma commisi no crimini. E di
erroracci ne ho fatti un po', ho avuto la mia parte di sabbia calciata in
faccia, ma ne sono uscito. Questa mi riporta al '77, troppo indietro.
E allora... vediamo di rispolverare qualche
memoria cerebrale ancora giacente.
Che facevano le corse al Metano lo sapete già.
Alle medie non parlavano d'altro, ma io non avevo neanche la struttura per
capire.
Passavo i pomeriggi rastrellando giornalini
porno e classificando escrementi di roditore sulle rive del Terzolle. Con me il
fido Bartolesi, e pochissimi altri che accettavano di risalire il torrente per
un tratto notoriamente malfrequentato. Se andava bene qualche contadino si
limitava a vociarci perché gli stavamo calpestando l'orto abusivo (tutti quei
pittoreschi quanto irregolari coltivi e casottini duravano da oltre cent'anni
quando, in una sola notte, vennero spazzati via per sempre dalla piena del
'92). Altre volte poteva andare peggio, come quando caddi dal sentiero su un
cespuglio di ortiche e poi in acqua, o come quando ci imbattevamo nei segaioli,
una variante edulcorata dei tanti 'indiani' che imperversavano nelle campagne
fiorentine. E capitava che beccavi sti ragazzotti (per noi adulti) o anche più
tristi omìni che si segavano coi giornalini sul ruscello. Noi scappavamo. Ma
poi tornavamo. Una volta avevamo trovato vuota la piazzola maledetta e
frugavamo per cercare qualche giornalino porno. Un tipo dalla strada ce ne
gettò uno invitandoci a prenderlo: non lo raccogliemmo neanche perché era tutto
impiastricciato.
Il Bartolesi lo stimavo perché in prima media
aveva fatto imbestialire la professoressa di tedesco salutandola col braccio
teso alzato: 'Heil Hitler!'. Scena impagabile in una scuola nazista come
la Pieraccini degli anni ottanta. Non a caso la scanagliata di reazione della
mitica Sanvincenti culminò col vendicativo annuncio di un 'compito in classe
a sorpresa!'. Quale indiscriminata repressione! Vero è che tutti noi
avevamo riso di gusto.
L'Alluvione non me la ricordo, non ero ancora
nato, ma ho letto e ascoltato e imparato a retrodatarmi la data di nascita per
presentarmi come plausibile Angelo del Fango; in contesti estremi riesco a
millantare anche una precocissima partecipazione alla Resistenza. Ma non sono
il Mostro di Firenze. Né lo era mio padre. Garantito. O almeno, così è giusto
che voi crediate. Una cosa la posso dire: non siamo stati noi a chiudere
l'Anfiteatro, disperdendo la locale comunità di fastoni in trilocali e agenzie
interinali. Ma abbiamo fortemente voluto la Tramvia.
Sempre restando agli anni delle medie, quando
uscivamo da scuola, in Lavagnini, facevo questi trecento metri fino alla
fermata del 20, che mi riportava a Rifredi. Il più delle volte percorrevo
questo breve tratto di marciapiedi costeggiante i caotici Viali in compagnia
del mio amico ciccione, il parossistico Piccini. In lui avevo sperato di trovare
un pacioso non-cagatore-di-cazzo, scontrandomi invece con una personalità
riottosa quando non ostile o perversa, a tratti bestiale. Litigavo spesso, con
lui e con altri. Quasi ogni giorno. Poteva anche finire a schiaffi, ma senza
clamori o strascichi. Dopo cinque ore di squalo inteso come squola, ci
fermavamo volentieri all'alimentari che c'era prima al posto dello sciccoso Porfirio
Rubirosa, dove la cinica Soratea ci ingrassava con catartiche schiacciate
ripiene vendute a mille lire. Ricordo ancora l'espressione assente del Piccini
e il suo totale rifiuto di ogni dialogo mentre addentava il fiero pasto, senza
curarsi di sale, molliche e stracchino che lo sfiguravano puntualmente.
Mangiava come una bestia feroce. Ma anche io, che però non ho mai prescisso dai
princìpi della convivialità.
Un dolce ricordo affiora dall'immota teoria di
quei grigi primi pomeriggi: ogni tanto si piazzava davanti alla fermata del 20,
in mezzo al traffico che si annodava attorno alla Fortezza da Basso, un
disturbato mentale di quelli non cattivi, vestito di tutto punto da cowboy;
brandendo due pistole (direi finte, ora che ci penso) fingeva di sparare alle
varie macchine. Avrà avuto sessant'anni, non molto alto, con un sorriso
bellissimo e un volto da attore. Quando lo salutavamo ci puntava la pistola
raggiante ma non ci sparava, ricambiando con gesti d'intesa. Chissà che fine ha
fatto. Me lo stringo al cuore.
Il Tenax era il tempio del rock e ci
suonavano i più grandi ma io avevo paura e non ci misi piede fino a dieci anni
più tardi. Anche solo menzionarlo ci impone però uno shiftone sui primi dumila.
Ad una serata danzante di Natale del 2005 nel suddetto locale. Ero con Leo e
Dani e ci stavamo tirando dietro un treno di fighe. Noi trentenni, Dani
ventenne. A un certo punto quest'ultimo esce e sparisce. Non lo avevano fatto
rientrare ed era rimasto ad aspettarci tre ore, durante le quali aveva anche
suonato il campanello di un'abitazione privata per chiedere un bicchier
d'acqua. Ma ditemi voi! Immaginate che un giovane dai modi dolci e gli occhi
azzurri vi suoni alle due della notte di Natale per chiedervi un bicchier
d'acqua! Un topos letterario! In quel caso retorica e carità prevalsero: venne
accolto e dissetato. Io non so come avrei reagito, avrei pensato fosse un
fantasma, fermo restando che un bicchier d'acqua, una sigaretta o una
telefonata, diocristo, non si negano a nessuno. Dovete essere comunque
fortunatissimi per bekkarmi con del credito disponibile.
Nel '96 vincemmo la Supercoppa:
indipendentemente dal mio alterno interesse per il calcio, quella fortunata
trasferta coincise col mio più scanzonato apice giovanile. Haec dum
Mediolani aguntur, io glassavo con sincerità qualche madonna gigliata. Ne
rimediavo in dosi contenute ma regolari assistendo alle corse dei cani, come già
scrissi in versi.
A volte, nelle serate di risacca, ci sedevamo
colla chitarra sotto il Monumento ad Alan Quinn e tiravamo mattina fra
stornelli, lazzi e mottetti. Una volta fummo improvvisamente interrotti dagli
sbirri del contado, i quali, permeati di lanugine, si erano riversati sulla
mulattiera intimandoci di lasciare la zona franca. Prima che si avvicinassero,
riuscimmo a sparire fra le frasche delle Cascine e darci alla fuga. Mezzo
chilometro a perdifiato fino all'Indianino e poi di corsa fino all'Isoloccio. Militarium
catervae ab oriente perductae sunt, spiritum trahentes exiguum, per aerumnas
detestatae multiplices. Volevo vomitare la milza. Fu il muscoloso Quaglia a
sollevarmi e infilarmi nei pertugi del sottoponte dove mi acquattai in culo
alla mezzanotte. Arcessebantur enim ministri: li vedemmo sfilare, a
passo marziale, fino all'alba. A parte il Quaglia e l'impavido Monatti, in
exitium praeceps, non sapevo che fine avessero fatti gli altri (eravamo
almeno sette): in particolare il Sottani, qui discerptus credebatur. Non
riuscimmo a individuarli anche per la diafana foschia di quel primo mattino
d'ottobre e credemmo sensato portarci quanto prima al nostro ritrovo comune in
piazza Fallaci. Frastornati dalla cogente surrealtà degli occorsi accadimenti,
ci trovammo indecisi sulla direzione da prendere, avventurandoci nell'ancor
plumbeo verde pubblico verso le sagome di lontani palazzi. Giunti al limitare
di una radura, scorgemmo dei reattori termonucleari che giravano a vuoto: ne
sorse una lite dacché ciascuno di noi voleva scoparseli per primo. Più avanti,
la Tramvia, si ergeva limacciosa, sbuffando fra le nebbie. Dovemmo fare quei
quattro, fatali, passi in più per leggere distintamente il cartello: Non
sostare sulle rotaie. Poi non ricordo. Scusate, devo fermarmi.
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