martedì 6 marzo 2018

MEMORIE FIORENTINE (I) di Narciso Fenice Ramparti

Non mi ricordo un cazzo. Se avessimo avuto tipo gli smartphone avremmo potuto documentare. L'odierna informatizzazione e i social sovvengono, talora, riportando alla luce pur parzialissimi reperti che schiudono mondi. Per noi, schizzi lautamente predigitali, una foto o un video dal passato è sempre una rivelazione. Ti sbatte in faccia una versione di te che spesso neanche riconosci, che senti estranea. E da lì divampano il desiderio e la curiosità di riappropriarti di te stesso, del tuo passato, che tieni sempre presente ma scopri, straordinariamente, di non conoscere. O peggio, di non ricordare.

Purtroppo, per quanta robuccia possa via via venir fuori grazie al più improbabile dei Pelacchi, non c'è comunque storia. Adesso puoi filmarti mentre vivi e ognuno lascerà il video della sua vita. Noi no. Argh. Molti coetanei sfigati mi hanno detto che è meglio così, con la memoria idealizzante e selettiva, ma io so cosa si perde il mondo e ci sclero sconsolatamente.  

Proviamo dunque a resipiscere in peracta, in una serie di apposite quanto estemporanee sezioni numerate: questa la prima in offerta speciale. Tre schiaffi e affare fatto. Ho pagato i miei debiti, tempo dopo tempo. Ho fatto la mia sentenza, ma commisi no crimini. E di erroracci ne ho fatti un po', ho avuto la mia parte di sabbia calciata in faccia, ma ne sono uscito. Questa mi riporta al '77, troppo indietro.

E allora... vediamo di rispolverare qualche memoria cerebrale ancora giacente.

Che facevano le corse al Metano lo sapete già. Alle medie non parlavano d'altro, ma io non avevo neanche la struttura per capire.

Passavo i pomeriggi rastrellando giornalini porno e classificando escrementi di roditore sulle rive del Terzolle. Con me il fido Bartolesi, e pochissimi altri che accettavano di risalire il torrente per un tratto notoriamente malfrequentato. Se andava bene qualche contadino si limitava a vociarci perché gli stavamo calpestando l'orto abusivo (tutti quei pittoreschi quanto irregolari coltivi e casottini duravano da oltre cent'anni quando, in una sola notte, vennero spazzati via per sempre dalla piena del '92). Altre volte poteva andare peggio, come quando caddi dal sentiero su un cespuglio di ortiche e poi in acqua, o come quando ci imbattevamo nei segaioli, una variante edulcorata dei tanti 'indiani' che imperversavano nelle campagne fiorentine. E capitava che beccavi sti ragazzotti (per noi adulti) o anche più tristi omìni che si segavano coi giornalini sul ruscello. Noi scappavamo. Ma poi tornavamo. Una volta avevamo trovato vuota la piazzola maledetta e frugavamo per cercare qualche giornalino porno. Un tipo dalla strada ce ne gettò uno invitandoci a prenderlo: non lo raccogliemmo neanche perché era tutto impiastricciato.

Il Bartolesi lo stimavo perché in prima media aveva fatto imbestialire la professoressa di tedesco salutandola col braccio teso alzato: 'Heil Hitler!'. Scena impagabile in una scuola nazista come la Pieraccini degli anni ottanta. Non a caso la scanagliata di reazione della mitica Sanvincenti culminò col vendicativo annuncio di un 'compito in classe a sorpresa!'. Quale indiscriminata repressione! Vero è che tutti noi avevamo riso di gusto.

L'Alluvione non me la ricordo, non ero ancora nato, ma ho letto e ascoltato e imparato a retrodatarmi la data di nascita per presentarmi come plausibile Angelo del Fango; in contesti estremi riesco a millantare anche una precocissima partecipazione alla Resistenza. Ma non sono il Mostro di Firenze. Né lo era mio padre. Garantito. O almeno, così è giusto che voi crediate. Una cosa la posso dire: non siamo stati noi a chiudere l'Anfiteatro, disperdendo la locale comunità di fastoni in trilocali e agenzie interinali. Ma abbiamo fortemente voluto la Tramvia.

Sempre restando agli anni delle medie, quando uscivamo da scuola, in Lavagnini, facevo questi trecento metri fino alla fermata del 20, che mi riportava a Rifredi. Il più delle volte percorrevo questo breve tratto di marciapiedi costeggiante i caotici Viali in compagnia del mio amico ciccione, il parossistico Piccini. In lui avevo sperato di trovare un pacioso non-cagatore-di-cazzo, scontrandomi invece con una personalità riottosa quando non ostile o perversa, a tratti bestiale. Litigavo spesso, con lui e con altri. Quasi ogni giorno. Poteva anche finire a schiaffi, ma senza clamori o strascichi. Dopo cinque ore di squalo inteso come squola, ci fermavamo volentieri all'alimentari che c'era prima al posto dello sciccoso Porfirio Rubirosa, dove la cinica Soratea ci ingrassava con catartiche schiacciate ripiene vendute a mille lire. Ricordo ancora l'espressione assente del Piccini e il suo totale rifiuto di ogni dialogo mentre addentava il fiero pasto, senza curarsi di sale, molliche e stracchino che lo sfiguravano puntualmente. Mangiava come una bestia feroce. Ma anche io, che però non ho mai prescisso dai princìpi della convivialità.

Un dolce ricordo affiora dall'immota teoria di quei grigi primi pomeriggi: ogni tanto si piazzava davanti alla fermata del 20, in mezzo al traffico che si annodava attorno alla Fortezza da Basso, un disturbato mentale di quelli non cattivi, vestito di tutto punto da cowboy; brandendo due pistole (direi finte, ora che ci penso) fingeva di sparare alle varie macchine. Avrà avuto sessant'anni, non molto alto, con un sorriso bellissimo e un volto da attore. Quando lo salutavamo ci puntava la pistola raggiante ma non ci sparava, ricambiando con gesti d'intesa. Chissà che fine ha fatto. Me lo stringo al cuore.

Il Tenax era il tempio del rock e ci suonavano i più grandi ma io avevo paura e non ci misi piede fino a dieci anni più tardi. Anche solo menzionarlo ci impone però uno shiftone sui primi dumila. Ad una serata danzante di Natale del 2005 nel suddetto locale. Ero con Leo e Dani e ci stavamo tirando dietro un treno di fighe. Noi trentenni, Dani ventenne. A un certo punto quest'ultimo esce e sparisce. Non lo avevano fatto rientrare ed era rimasto ad aspettarci tre ore, durante le quali aveva anche suonato il campanello di un'abitazione privata per chiedere un bicchier d'acqua. Ma ditemi voi! Immaginate che un giovane dai modi dolci e gli occhi azzurri vi suoni alle due della notte di Natale per chiedervi un bicchier d'acqua! Un topos letterario! In quel caso retorica e carità prevalsero: venne accolto e dissetato. Io non so come avrei reagito, avrei pensato fosse un fantasma, fermo restando che un bicchier d'acqua, una sigaretta o una telefonata, diocristo, non si negano a nessuno. Dovete essere comunque fortunatissimi per bekkarmi con del credito disponibile.

Nel '96 vincemmo la Supercoppa: indipendentemente dal mio alterno interesse per il calcio, quella fortunata trasferta coincise col mio più scanzonato apice giovanile. Haec dum Mediolani aguntur, io glassavo con sincerità qualche madonna gigliata. Ne rimediavo in dosi contenute ma regolari assistendo alle corse dei cani, come già scrissi in versi.

A volte, nelle serate di risacca, ci sedevamo colla chitarra sotto il Monumento ad Alan Quinn e tiravamo mattina fra stornelli, lazzi e mottetti. Una volta fummo improvvisamente interrotti dagli sbirri del contado, i quali, permeati di lanugine, si erano riversati sulla mulattiera intimandoci di lasciare la zona franca. Prima che si avvicinassero, riuscimmo a sparire fra le frasche delle Cascine e darci alla fuga. Mezzo chilometro a perdifiato fino all'Indianino e poi di corsa fino all'Isoloccio. Militarium catervae ab oriente perductae sunt, spiritum trahentes exiguum, per aerumnas detestatae multiplices. Volevo vomitare la milza. Fu il muscoloso Quaglia a sollevarmi e infilarmi nei pertugi del sottoponte dove mi acquattai in culo alla mezzanotte. Arcessebantur enim ministri: li vedemmo sfilare, a passo marziale, fino all'alba. A parte il Quaglia e l'impavido Monatti, in exitium praeceps, non sapevo che fine avessero fatti gli altri (eravamo almeno sette): in particolare il Sottani, qui discerptus credebatur. Non riuscimmo a individuarli anche per la diafana foschia di quel primo mattino d'ottobre e credemmo sensato portarci quanto prima al nostro ritrovo comune in piazza Fallaci. Frastornati dalla cogente surrealtà degli occorsi accadimenti, ci trovammo indecisi sulla direzione da prendere, avventurandoci nell'ancor plumbeo verde pubblico verso le sagome di lontani palazzi. Giunti al limitare di una radura, scorgemmo dei reattori termonucleari che giravano a vuoto: ne sorse una lite dacché ciascuno di noi voleva scoparseli per primo. Più avanti, la Tramvia, si ergeva limacciosa, sbuffando fra le nebbie. Dovemmo fare quei quattro, fatali, passi in più per leggere distintamente il cartello: Non sostare sulle rotaie. Poi non ricordo. Scusate, devo fermarmi.


 

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