No, quello che esattamente amava delle caramelle, che lo
rendeva totalmente dipendente al punto da non muoversi da casa senza
un’adeguata scorta, era la sensazione che gli regalavano. Non era mai riuscito
a spiegarlo dettagliatamente nemmeno al suo analista, per quanto ci avesse
provato. Ci erano tornati tante di quelle volte, sull’argomento. Avevano
definito che si trattava di una necessità emotiva, un vuoto da colmare. Ma come
avrebbe potuto quel compassato signore che lo ascoltava diligente ogni
settimana da dietro i suoi occhiali con la montatura di metallo sottile per
centocinquanta euro l’ora capire come si sentiva lui, quando posava sulla
lingua uno di quei piccoli dischetti di zucchero? Era come una magia: ne
metteva in bocca una e precipitava immediatamente nella sua infanzia, quando
tutto era rassicurante come la presa della mano di suo padre mentre
attraversavano la strada.
Erano le domeniche assolate dalla zia Gigliola, quando si
riuniva tutta la famiglia e si apparecchiava nel campo sotto gli ulivi, la
tovaglia di lino bianco appena accarezzata dalla brezza, in attesa delle gocce
di vino che presto o tardi l’avrebbero baciata facendola arrossire.
Erano lo sguardo caldo di sua madre, quando lo soccorreva
dopo una caduta in bicicletta, i denti immacolati di un sorriso appena
mascherato che si mostravano timidamente tra le labbra rosso ciliegia, un
attimo prima di posarsi invariabilmente sul ginocchio ferito per una
medicazione misteriosa in grado di guarire qualunque cavaliere ferito a morte
da un drago.
Erano la certezza del suo letto morbido, la sera, che
qualunque cosa succedesse era la conclusione buona e giusta della giornata, dove
si rifugiava aspettando nel dormiveglia che il padre passasse a rimboccargli le
coperte strette sotto il materasso, e la mamma gli pettinasse i capelli da un
lato con una carezza, liberandogli la fronte con cura, come a ripulirla da ogni
pensiero spiacevole.
Erano le mani nodose ed esperte del nonno quando gli riparava
la macchinina appena ricevuta e già rotta, mentre lui gli smoccicava accanto,
gli occhi incollati ai movimenti, alla colla, alla pazienza.
Erano il profumo dolciastro della nonna, i suoi capelli dai
colori bizzarri, le carte colorate e lucenti che collezionava, riducendole a
minuscoli pezzetti con cui ricopriva scatole di ogni dimensione e forma.
Erano le estati infinite davanti alla distesa luccicante del
mare, quando il tempo e lo spazio perdevano valore e rimanevano solo il caldo,
l’acqua e la solennità del silenzio nel primo pomeriggio.
Le caramelle erano un condensato delle cose migliori della
sua vita, delle emozioni più belle, di quella parte di certezza in cui si
rifugiava come sotto una tettoia in un giorno di pioggia. Non poteva lasciarle,
non ci avrebbe rinunciato per niente al mondo. A dispetto del peso che
aumentava come l’età, nelle sue tasche friggevano sempre carte di caramelle,
dai cassetti di casa spuntavano inaspettati pacchetti e confezioni colorate,
nei contenitori sparsi per l’ufficio non mancavano mai scorte di ogni genere.
Gli amici l’avevano ormai archiviata come una solida stranezza immodificabile;
i dipendenti ne approfittavano per garantirsi favori. Chi non riusciva
assolutamente a conciliarsi con la sua passione erano le donne. Per questo
probabilmente non c’era verso di far durare una relazione; per questo si era
rivolto allo psicanalista. Cominciavano bene, considerandola un vizio come un
altro - c’è chi fuma, chi si tormenta i capelli, chi inanella superalcolici,
tutto sommato le caramelle non sono nemmeno la peggiore delle abitudini -, per
poi passare a essere infastidite quando cominciavano a trovare le carte
infilate tra i cuscini del letto, o a sedercisi sopra sul divano. Quindi
sopraggiungeva la fase sospetto, in cui si domandavano se non fosse sintomo di
un disturbo mentale più serio, di quelli che portano ad accoltellare le
fidanzate sotto la doccia; infine terminavano con una insofferenza totale
caratterizzata da rigurgiti d’odio, in cui si scagliavano furibonde contro le
sue scorte e cercavano invariabilmente di farne falò. Quello era il momento in
cui troncava: di fronte alla scelta “o io o le caramelle”, indiscutibilmente
sceglieva le sue amiche più dolci e colorate.
Quindi, quando conobbe Sonia, era preparato. Conosceva a
memoria gli stadi, era rassegnato al degenerare del percorso. Si sarebbe goduto
il momento intermedio, e intanto avrebbe cercato di mantenere la propria
indipendenza per non soffrire troppo nel momento dell’inevitabile addio. Si
videro davanti all’ingresso del cinema: proiettavano Willy Wonka e la fabbrica
di cioccolato con Gene Wilder, il suo film preferito, in versione restaurata.
Fu solo quando furono dentro, accomodati nei posti più
centrali, che le chiese se volesse qualcosa dal bar, dove stava per andare a
fare la sua abituale ricarica di gommose alla coca cola. Sonia lo guardò con
aria birichina, gli sorrise e rispose “No, grazie”. Mentre gli rispondeva,
allargò i bordi della borsa verso di lui. Nell’interno, sparse e pigiate come
chicchi di uva nei tini per la spremitura, facevano bella mostra di sé gelè,
sassolini dolci, bastoncini di zucchero, rotelle di liquirizia, orsetti
colorati, goleador, toffee, scioglievoli al miele, ginevrine, mou, violette,
mentine, tuttifrutti, ripiene, propoline, incartate, nude, appiccicate tra
loro, senza confezioni, come il risultato di un assalto alla banca delle
caramelle.
Si guardarono negli occhi. Si sorrisero.
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