La luce accecante della lampada metteva in
evidenza ogni millimetro del volto, dandomi uno sguardo spettrale, adatto per
il genere di film in cui avrei lavorato come comparsa. I capelli imbrillantinati
e tirati indietro, lasciando la fronte scoperta, a parte due virgole stile
tirabaci, mi indurivano i lineamenti, facendomi sembrare Grimilde, la matrigna
di Biancaneve, nel momento in cui si trasforma in strega.
“Perfetta!”, sentenziò il truccatore, liberandomi
da quella tortura e facendo sedere un’altra malcapitata.
“Nun te toccà, che sennò rovini er trucco!”
m’intimò, congedandomi, in un impeccabile accento romanesco.
Non riuscivo ancora a raccapezzarmi come ero
potuta finire in questo bizzarro girone dantesco. Tutta colpa di mia figlia che
un mese prima mi aveva chiesto di accompagnarla ad una selezione di comparse
per un film che si sarebbe girato a Firenze. Si trattava del seguito del Silenzio
degli innocenti, pellicola di grande successo che aveva terrorizzato il
pubblico di mezzo pianeta per i modi spicci del protagonista, Hannibal the
Cannibal, raffinato divoratore di carne umana, interpretato da un
grandissimo attore inglese, per la regia di un altrettanto famoso regista
americano. Insomma una mega produzione internazionale per la quale erano stati
stanziati milioni di dollari e che avrebbe dato lavoro e paga sicura per
qualche giorno a comparse fiorentine, di varia umanità: disoccupati, studenti,
pensionati, casalinghe annoiate, persone di ogni genere e età; tutti comunque
uniti dalla passione per il cinema, ansiosi di apparire anche solo per qualche
istante in un film che sarebbe stato visto in tutto il mondo.
L’autore del romanzo aveva deciso, chissà per
quale perversa ragione, di ambientare il seguito della storia a Firenze, dove
Hannibal, da grande buongustaio, avrebbe trovato pane, anzi carne per i suoi
denti di cannibale. Ecco perché ci trovavamo già da un’ora in coda, mia figlia
ed io, in attesa di essere selezionate e scelte come comparse. Sì, perché la furbacchiona aveva insistito affinché rimanessi a farle un po’ di
compagnia, tanto figuriamoci se avrebbero scelto proprio me!
Invece, incredibile ma vero, l’incaricato
addetto alla selezione puntò diritto lo sguardo verso di me, ignorando del
tutto la creatura, giovane e bella come il sole.
Quasi in stato di trance, venni prelevata con
altre signore dalla fila e dirottata verso una grande sala. Salutai con un
cenno della mano e con un grosso senso di colpa Valentina che mi guardava
sgomenta e delusa.
La sala era una bolgia di gente esagitata; chi
gesticolava in italiano, chi strillava in inglese; mi resi conto subito
tuttavia, che nonostante il caos apparente, vigeva una ferrea organizzazione e
niente era affidato al caso.
Una tipa grassottella, dall’accento nasale
americano, mi chiese i documenti e mi spiegò convulsamente l’aspetto
burocratico della mia prestazione, assicurazione, paga e quant’altro. Non
riuscii a capirci molto, tanto ero frastornata. Poi passai in un altro lato del
salone dove, dietro un paravento, due signore dal camice bianco, con il metro
intorno al collo mi presero le misure, mi chiesero il numero di scarpe e mi
misero quasi di peso su una bilancia.
Fui congedata in tutta fretta, con una specie
di contrattino in mano.
Ed eccomi adesso, super truccata, ma brutta come la morte, in attesa di girare la scena di massa della quale si parla da giorni. Mi hanno infilato una lunga gonna nera con lo spacco, con sopra una maglia di lamé argentata. Mi guardo intorno, uomini e donne vestiti da sera, d’ogni età, ma tutti con lo stesso sguardo cattivo, con un trucco tale da far apparire orrido anche il volto più delicato e dolce. Esigenze di copione naturalmente.
Tutti in fila percorriamo un centinaio di
metri, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti, ed eccoci arrivati alla location
dove è già stato allestito il set. Si tratta del bellissimo chiostro di Santa
Croce, trasformato per l’occasione in un grande teatro con annesso salone di
ricevimento, con tavole finemente apparecchiate e imbandite di ogni ben di Dio:
torte a più piani, cascate di frutta esotica, vassoi colmi di pasticcini e
tramezzini colorati. Abbiamo tutti l’acquolina in bocca, visto che siamo
digiuni da parecchie ore, a parte un frugale spuntino offerto dalla produzione.
Scopriremo in seguito che la maggior parte di queste prelibatezze è finta,
forse di gesso o plastica. Ce lo confida un vecchio generico, che poveraccio,
mordendo di nascosto una mela, si era quasi spezzato un dente.
Ci fanno accomodare a sedere, spettatori di un
qualcosa di strano e indefinito che si sta svolgendo sul palcoscenico, dove dei
mimi impersonano statue di marmo che si muovono al suono di una musica lugubre,
sempre la stessa per ore.
Un tipo scalmanato, di cui non afferro la
mansione, provvisto di megafono, ci avverte con inequivocabile e brusco accento
romano, quando sta per essere girata una scena e come dobbiamo comportarci.
Niente gomme o caramelle in bocca, niente scialli e golfini sulle spalle nude.
È già notte fonda e fa freddo nonostante sia giugno. Insomma dobbiamo essere
composti, impeccabili e attenti allo spettacolo. Tra un ciak e l’altro è tutto
un alzarsi per andare alla toilette, facendo attenzione di non inciampare nei
cavi e fili elettrici messi ovunque.
Il grande regista Ridley Scott domina la scena
dall’alto della gru mobile, seminascosto dall’ingombrante cinepresa. È molto
trasandato, barba bionda incolta, bermuda, canottiera, infradito. Evidentemente
ha caldo, beato lui! Urla in continuazione, in inglese.
Dopo ore d’immobilità comincio a capire che
esiste una gerarchia ben definita tra gli addetti ai lavori. La manovalanza
formata da elettricisti, microfonisti, facchini, tecnici del suono è tutta
italiana, mentre le mansioni più importanti come aiuto regista, assistenti alla
regia, segretarie di produzione, direttore di scena sono affidate a stranieri,
americani o inglesi, per lo più.
Ma ecco arrivata la scena del rinfresco. Siamo
tutti in piedi nell'attesa di ordini. Qualcuno viene mandato ai tavoli a
servirsi di leccornie, senza però mettere nulla in bocca. Altri si siedono ai
tavolini, serviti da impenetrabili camerieri. Dobbiamo far finta di conversare.
Ci consigliano di dire dei numeri sottovoce.
E’ quasi l’alba e i ciak, si gira! sono stati tanti. La stanchezza e il freddo si
fanno sentire. Siamo di nuovo a sedere in platea. Ho fatto amicizia con le
comparse sedute vicine; è tutto uno sbadigliare e un chiedersi quando finirà
questo tormento. Anche i protagonisti del film, attori molto famosi, danno
segni di cedimento. Giancarlo Giannini fuma in continuazione.
Negli intervalli ci alziamo con sollievo
cercando di rimettere in moto le membra intorpidite. C’è un punto ristoro dove
ci buttiamo a capofitto sorseggiando bevande calde e divorando focaccine e
pizzette, facendo attenzione a non rovinare il trucco.
Riesco a farmi un varco per raggiungere il
celebre attore che interpreta Hannibal. E’ talmente concentrato nella parte che
se ne sta assorto in un angolino, in totale silenzio, con uno sguardo che mette
i brividi. Mi avvicino con circospezione; ho paura che mi dia un morso e mi
stacchi il naso, ma è tanto il desiderio di un autografo che gli porgo
timidamente una sua foto e una penna. Stranamente mi lancia un luminoso
sorriso. Ha splendidi occhi azzurri e in un istante non è più il feroce
cannibale, evaso dal carcere di massima sicurezza di Baltimora, ma il
compassato e distinto gentleman inglese, insignito del titolo di baronetto,
dalla regina Elisabetta. Firma con uno sgorbio e mi fa perfino l’occhiolino; poi mi allunga una caramella!
Ancora un paio di ciak e finalmente siamo
liberi. E’ giorno inoltrato, ormai. Sembriamo tutti degli zombie, stanchi morti
e dal trucco disfatto. Raggiungo il camerino, aspetto il mio turno e mi siedo
davanti al grande specchio. Quasi mi prende un colpo. Il pesante mascara è
completamente colato lungo il viso, lasciando due fosse nere al posto degli
occhi; i capelli pieni di lacca e brillantina sono fili di ferro. Provo a
pettinarli ma sono talmente duri che si spezza il pettine. Riesco con molta fatica
a struccarmi, usando una dose massiccia di crema detergente.
Sono passati diversi mesi da questa mia
esperienza, tutto sommato divertente, anche se non molto remunerata. A giorni dovrebbe uscire il film. Pare che la
prima si svolgerà a Firenze, presente l’intero cast. Sono
curiosa di rivedermi. Chissà se mi piacerò, con quel trucco terrorizzante e
quella lunga
maglia di lamè che mi fa sembrare un guerriero alle Crociate?
E’ ormai in programmazione da quasi una
settimana e non mi sono ancora decisa, forse ho paura di rimanere delusa? Vengo
colta da uno strano presentimento.
Ma eccomi seduta al cinema Odeon. Il film è
veramente pauroso; ci sono scene raccapriccianti. Non vedo l’ora di arrivare
alla famosa sequenza del chiostro per poi svignarmela in tutta fretta. Voglio
assolutamente evitare la fine orrenda di Giannini, commissario di polizia,
impiccato ad una finestra di Palazzo Vecchio per mano di Hannibal.
Il momento tanto atteso sta arrivando! Eccolo
finalmente! E’ una scena di massa, presa a distanza. Non riesco ad
individuarmi, né seduta, né in piedi al rinfresco. Dura meno di un minuto!
Quasi tutta tagliata! Undici ore di lavoro per cinquanta secondi di sequenza.
In seguito ho cercato, rivedendo il film al
computer, con il ferma immagine, di riconoscermi in mezzo a quel girone
infernale, ma di me nessuna traccia.
A volte ho il sospetto di aver fatto solo un
sogno, se non fosse per quella caramella che ancora conservo.
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