Osservo
i loro volti, le loro espressioni, con la stessa attenzione con la quale
osservo le sfumature del colore di un vino, i toni del suo sapore, le sfumature
del suo profumo.
Molti
miei colleghi si disinteressano delle persone che bevono i vini che loro
assaggiano e scelgono, concentrando tutta la loro attenzione appunto sul vino.
Io no.
Chi
e’ che in fondo perpetra i nostri forzi, la nostra passione? Il produttore? Il
vignaiolo? L’imbottigliatore e gli altri operai delle cantine? No, dico io! Il
produttore non conosce che il suo naso, il suo pezzo di terra, la sua vigna.
L’operaio deve portare il pane in tavola, è questo il suo scopo principale od
il suo unico scopo, poco importa cosa raccoglie, potrebbero essere anche cavoli
o patate. E cosi’ gli operai delle cantine, si guadagnano il loro stipendio,
imbottigliando vino o acqua colorata, poco importa.
Solo
coi piu’ assidui e raffinati bevitori si puo’ instaurare quella corrispondenza
silenziosa, che giustifica il continuare dei nostri sforzi.
Cosi’
li scruto, dopo averli serviti: a volte lo posso fare liberamente, non si
curano piu’ di me dopo che ho riempito il loro bicchiere, spiegando le
caratteristiche di cio’ che li ho appena versato, brevemente, perche’ ogni
esperienza a mio giudizio e’ personale; o di nascosto, nell’acquoso riflesso di
un baloon o di un flute, o nel verde primaverile di una bottiglia di vino
giovane, o nel cupo sottobosco di un robusto invecchiato.
Ecco
la signora o signorina, spiritosa e brillante come un ricamo di bollicine: e se
e’ bionda e’ come se avesse trasferito qualcosa di se’ nel bicchiere.
O
seria, assorta, quasi triste, come un bianco fermo e secco, al quale il
creatore ha rubato l’anima.
O
la bruna dalle labbra piene ed imbronciate e lo sguardo tuttavia morbido e
carezzevole, come certi rossi del sud, scuri, grevi all’apparenza, ma con un
cuore che scivola e ti avvolge come un’amante esperto in un lenzuolo.
L’uomo
frivolo, votato all’apparenza dei suoi vestiti alla moda e delle belle maniere,
che coprono il vuoto dei suoi ragionamenti, la leggerezza evanescente delle sue
pur belle parole: come certi bianchi che stuzzicano l’occhio e la gola con
promesse di chissa’ quale importanza e poi si perdono nel gusto dei piatti che
devono accompagnare, e solo grazie a questi trovano un senso.
O
al contrario l’uomo fermo nel sostenere gli sguardi e nel dare la mano,
affidabile come un buon toscano, che mantiene le promesse e sorregge le
aspettative.
Così
li guardo dopo averli serviti, cercando la corrispondenza fra il fluttuare nei
loro bicchieri e loro.
E
devo dire che raramente mi sbaglio.
Alla
fine della giornata, quando e’ il mio turno di versare, nel mio bicchiere
stavolta, nella penombra rossastra delle lampade, nelle sere invernali, o nelle
lunghe lingue di luce che dalle finestre leccano maliziosamente i piedi del
tavolo, nelle sere d’estate, considero per un lungo attimo qual è stato il tipo
di persona al quale in prevalenza ho servito quel giorno, qual è stato il suo
colore, qual’era la sfumatura prevalente, che sapore ha sopravanzato tutti gli
altri.
Ci
penso, scorrendo lo sguardo dal bicchiere piu’ tondo a quello piu’ snello,
soppeso, decido.
Afferro
il prescelto, dirigo i miei passi verso la lunga parete dove sono allineate le
bottiglie che ho fatto portare nei giorni precedenti dalla cantina, cerco con
lo sguardo uno, due, tre minuti, trovo, afferro, appoggio soddisfatto la
bottiglia ed il bicchiere sul ripiano tondo, ricavato da un tronco di quercia
giovane, dove preparo anche il servizio per i clienti affezionati, stappo con
cura e circospezione, bevo.
In
fondo al lungo corridoio nel quale si sostanzia la mia cantina, sulla sinistra,
tradizionalmente la parte sbagliata, ci sono i miei errori.
Meglio,
ci sono quelli che grandi cantine, grandi sommelier, produttori tuttavia
illustri, hanno reputato errori, passi falsi, sbagli, in un cammino talmente
costellato di successi da non poterne sopportare nemmeno uno, appunto, di
errore.
Vitigni
male assortiti, composizioni azzardate, buon sapore senza profumo o buon
profumo senza sostanza, note di fondo troppo forti o troppo deboli, retrogusti
troppo acidi o troppo pastosi.
Ognuno
ha la sua personale vena collezionistica e questa e’ la mia.
Ed
in fondo all’ultima botte, quella piu’ vicina al muro, che sembra quasi al muro
si appoggi, per sostenere il peso del suo segreto, c’è il mio personalissimo
errore.
L’unico
volto che sia sfuggito ad ogni mio tentativo di comprensione e classificazione
il suo. Come un cielo al cambio di stagione, come un mare subito prima di
un’improvvisa bonaccia.
Gli
occhi velati di malinconia e subito dopo pieni di gioia e subito dopo assorti
in chissa’ quale complicata meditazione sul mondo.
Le
mani eleganti ora aperte , coi palmi rivolti al mondo, ora strette l’una
all’altra, in un contorto e chiuso nervosismo.
I
capelli ora raccolti e puniti, ora sciolti, spumosi, come pieni di soffi di
vento che erano arrivati sulla sua testa e li’ si erano fermati, restando
sospesi.
Il
profilo che si induriva e si addolciva in un momento, seguendo un pensiero, una
visione o una canzone.
O
forse era proprio il suo essere sfuggente, restia ad ogni tentativo di
comprensione, insieme la sua nota caratteristica, il suo corpo e la sua nota di
fondo.
Quando
arrivai all’ospedale, trafelato, confuso e forse felice, lei era già andata
via.
Inebetito
rimasi a guardare il letto vuoto, una tazza, un bicchiere, dei fazzoletti, una
maglietta, lasciati in giro, ordinati, puliti ed allo stesso tempo segno di una
fuga improvvisa e precipitosa.
Impietrito,
con una strana sensazione di freddo, una lama gelida che saliva dalle piante
dei piedi fino alla base del collo, rimasi non so quanto accanto alla colla
dove si agitava muto, senza un grido, senza un lamento, con improvvise,
repentine contrazioni delle mani e delle gambette storte e deformi, un cosino
violaceo.
Le
parole del medico, che pronosticava una vita breve ed infelice a causa di
difetti che non erano solo esterni ma coinvolgevano organi ed apparati interni,
mi arrivavano attutite, cupi e tuttavia ridondanti e furiose, come soffi di
tempesta attraverso un vecchio muro, largo e temprato alle intemperie.
Tornai
solo qualche giorno dopo, per andare a prenderlo.
Lo
presi in braccio titubante e lo avvolsi gia’ stretto in una copertina bianca.
Mi
guardo’ dal fondo degli occhi scuri, sembrava che sapesse gia’ tutto, tutto
della sua infelice condizione, tutto della mia decisione, e che accettasse, non
dispiaciuto ne’ rassegnato, ma consapevole e pronto.
Non
emise un grido durante tutto il viaggio in macchina fino alla cantina.
Sentivo
il suo respiro lieve e regolare, calmo, che mi infondeva coraggio.
Quando
lo ripresi in braccio mi accorsi che dormiva: meglio, pensai, chissa’ se ci
sarei riuscito se mi avesse guardato.
Scese
le scale tuttavia, mentre percorrevo il corridoio tutto fino in fondo, e di
nuovo la stessa sensazione mordente di gelo mi saliva lungo la schiena, tirai
l’orlo della copertina sul suo faccino, per paura che riaprisse gli occhi e mi
guardasse, anche solo per un brevissimo attimo.
Sali’
maldestramente sulla scaletta appoggiata alla vecchia botte, col bimbo in
braccio, in un silenzio irreale, non interrotto piu’ nemmeno da quel lieve
soffio appena percettibile che era il suo respiro: forse era gia’ morto.
Mi
serviva quel silenzio, per continuare a non provare niente, a parte il taglio
freddo lungo tutto il corpo, e nell’assenza di ogni tipo di sensazione ed
emozione, riuscire a fare quello che mi ero ripromesso: forse lui l’ha capito e
per questo ha smesso perfino di respirare, di fare qualsiasi rumore.
In
bilico sulla scaletta, apri’ la botte, cercando di concentrare ogni parte del
mio corpo sul quel breve gesto e di non pensare ad altro.
Poi,
tenendo con un braccio il tappo della botte, con l’altro lo feci scivolare
dentro, cercando di essere il piu’ circospetto e delicato possibile.
Richiusi
senza guardare: non volevo cominciare a provare qualcosa vedendolo scivolare
giu’.
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