martedì 31 ottobre 2017

L'ERRORE di Roberta Sandrini


Osservo i loro volti, le loro espressioni, con la stessa attenzione con la quale osservo le sfumature del colore di un vino, i toni del suo sapore, le sfumature del suo profumo.

Molti miei colleghi si disinteressano delle persone che bevono i vini che loro assaggiano e scelgono, concentrando tutta la loro attenzione appunto sul vino. Io no.

Chi e’ che in fondo perpetra i nostri forzi, la nostra passione? Il produttore? Il vignaiolo? L’imbottigliatore e gli altri operai delle cantine? No, dico io! Il produttore non conosce che il suo naso, il suo pezzo di terra, la sua vigna. L’operaio deve portare il pane in tavola, è questo il suo scopo principale od il suo unico scopo, poco importa cosa raccoglie, potrebbero essere anche cavoli o patate. E cosi’ gli operai delle cantine, si guadagnano il loro stipendio, imbottigliando vino o acqua colorata, poco importa.

Solo coi piu’ assidui e raffinati bevitori si puo’ instaurare quella corrispondenza silenziosa, che giustifica il continuare dei nostri sforzi.

Cosi’ li scruto, dopo averli serviti: a volte lo posso fare liberamente, non si curano piu’ di me dopo che ho riempito il loro bicchiere, spiegando le caratteristiche di cio’ che li ho appena versato, brevemente, perche’ ogni esperienza a mio giudizio e’ personale; o di nascosto, nell’acquoso riflesso di un baloon o di un flute, o nel verde primaverile di una bottiglia di vino giovane, o nel cupo sottobosco di un robusto invecchiato.

Ecco la signora o signorina, spiritosa e brillante come un ricamo di bollicine: e se e’ bionda e’ come se avesse trasferito qualcosa di se’ nel bicchiere.

O seria, assorta, quasi triste, come un bianco fermo e secco, al quale il creatore ha rubato l’anima.

O la bruna dalle labbra piene ed imbronciate e lo sguardo tuttavia morbido e carezzevole, come certi rossi del sud, scuri, grevi all’apparenza, ma con un cuore che scivola e ti avvolge come un’amante esperto in un  lenzuolo.

L’uomo frivolo, votato all’apparenza dei suoi vestiti alla moda e delle belle maniere, che coprono il vuoto dei suoi ragionamenti, la leggerezza evanescente delle sue pur belle parole: come certi bianchi che stuzzicano l’occhio e la gola con promesse di chissa’ quale importanza e poi si perdono nel gusto dei piatti che devono accompagnare, e solo grazie a questi trovano un senso.

O al contrario l’uomo fermo nel sostenere gli sguardi e nel dare la mano, affidabile come un buon toscano, che mantiene le promesse e sorregge le aspettative.

Così li guardo dopo averli serviti, cercando la corrispondenza fra il fluttuare nei loro bicchieri e loro.

E devo dire che raramente mi sbaglio.

Alla fine della giornata, quando e’ il mio turno di versare, nel mio bicchiere stavolta, nella penombra rossastra delle lampade, nelle sere invernali, o nelle lunghe lingue di luce che dalle finestre leccano maliziosamente i piedi del tavolo, nelle sere d’estate, considero per un lungo attimo qual è stato il tipo di persona al quale in prevalenza ho servito quel giorno, qual è stato il suo colore, qual’era la sfumatura prevalente, che sapore ha sopravanzato tutti gli altri.

Ci penso, scorrendo lo sguardo dal bicchiere piu’ tondo a quello piu’ snello, soppeso, decido.

Afferro il prescelto, dirigo i miei passi verso la lunga parete dove sono allineate le bottiglie che ho fatto portare nei giorni precedenti dalla cantina, cerco con lo sguardo uno, due, tre minuti, trovo, afferro, appoggio soddisfatto la bottiglia ed il bicchiere sul ripiano tondo, ricavato da un tronco di quercia giovane, dove preparo anche il servizio per i clienti affezionati, stappo con cura e circospezione, bevo.         

 

In fondo al lungo corridoio nel quale si sostanzia la mia cantina, sulla sinistra, tradizionalmente la parte sbagliata, ci sono i miei errori.

Meglio, ci sono quelli che grandi cantine, grandi sommelier, produttori tuttavia illustri, hanno reputato errori, passi falsi, sbagli, in un cammino talmente costellato di successi da non poterne sopportare nemmeno uno, appunto, di errore.

Vitigni male assortiti, composizioni azzardate, buon sapore senza profumo o buon profumo senza sostanza, note di fondo troppo forti o troppo deboli, retrogusti troppo acidi o troppo pastosi.

Ognuno ha la sua personale vena collezionistica e questa e’ la mia.

Ed in fondo all’ultima botte, quella piu’ vicina al muro, che sembra quasi al muro si appoggi, per sostenere il peso del suo segreto, c’è il mio personalissimo errore.

 

L’unico volto che sia sfuggito ad ogni mio tentativo di comprensione e classificazione il suo. Come un cielo al cambio di stagione, come un mare subito prima di un’improvvisa bonaccia.

Gli occhi velati di malinconia e subito dopo pieni di gioia e subito dopo assorti in chissa’ quale complicata meditazione sul mondo.

Le mani eleganti ora aperte , coi palmi rivolti al mondo, ora strette l’una all’altra, in un contorto e chiuso nervosismo.

I capelli ora raccolti e puniti, ora sciolti, spumosi, come pieni di soffi di vento che erano arrivati sulla sua testa e li’ si erano fermati, restando sospesi.

Il profilo che si induriva e si addolciva in un momento, seguendo un pensiero, una visione o una canzone.

O forse era proprio il suo essere sfuggente, restia ad ogni tentativo di comprensione, insieme la sua nota caratteristica, il suo corpo e la sua nota di fondo. 

 

Quando arrivai all’ospedale, trafelato, confuso e forse felice, lei era già andata via.

Inebetito rimasi a guardare il letto vuoto, una tazza, un bicchiere, dei fazzoletti, una maglietta, lasciati in giro, ordinati, puliti ed allo stesso tempo segno di una fuga improvvisa e precipitosa.

Impietrito, con una strana sensazione di freddo, una lama gelida che saliva dalle piante dei piedi fino alla base del collo, rimasi non so quanto accanto alla colla dove si agitava muto, senza un grido, senza un lamento, con improvvise, repentine contrazioni delle mani e delle gambette storte e deformi, un cosino violaceo.

Le parole del medico, che pronosticava una vita breve ed infelice a causa di difetti che non erano solo esterni ma coinvolgevano organi ed apparati interni, mi arrivavano attutite, cupi e tuttavia ridondanti e furiose, come soffi di tempesta attraverso un vecchio muro, largo e temprato alle intemperie.

 

Tornai solo qualche giorno dopo, per andare a prenderlo.

Lo presi in braccio titubante e lo avvolsi gia’ stretto in una copertina bianca.

Mi guardo’ dal fondo degli occhi scuri, sembrava che sapesse gia’ tutto, tutto della sua infelice condizione, tutto della mia decisione, e che accettasse, non dispiaciuto ne’ rassegnato, ma consapevole e pronto.

Non emise un grido durante tutto il viaggio in macchina fino alla cantina.

Sentivo il suo respiro lieve e regolare, calmo, che mi infondeva coraggio.

Quando lo ripresi in braccio mi accorsi che dormiva: meglio, pensai, chissa’ se ci sarei riuscito se mi avesse guardato.

Scese le scale tuttavia, mentre percorrevo il corridoio tutto fino in fondo, e di nuovo la stessa sensazione mordente di gelo mi saliva lungo la schiena, tirai l’orlo della copertina sul suo faccino, per paura che riaprisse gli occhi e mi guardasse, anche solo per un brevissimo attimo.

Sali’ maldestramente sulla scaletta appoggiata alla vecchia botte, col bimbo in braccio, in un silenzio irreale, non interrotto piu’ nemmeno da quel lieve soffio appena percettibile che era il suo respiro: forse era gia’ morto.

Mi serviva quel silenzio, per continuare a non provare niente, a parte il taglio freddo lungo tutto il corpo, e nell’assenza di ogni tipo di sensazione ed emozione, riuscire a fare quello che mi ero ripromesso: forse lui l’ha capito e per questo ha smesso perfino di respirare, di fare qualsiasi rumore.

In bilico sulla scaletta, apri’ la botte, cercando di concentrare ogni parte del mio corpo sul quel breve gesto e di non pensare ad altro.

Poi, tenendo con un braccio il tappo della botte, con l’altro lo feci scivolare dentro, cercando di essere il piu’ circospetto e delicato possibile.

Richiusi senza guardare: non volevo cominciare a provare qualcosa vedendolo scivolare giu’.

Ripercorsi il corridoio in un silenzio irreale; riusci’ solamente a pensare, e non fu una consolazione ma solo una constatazione, che ogni sbaglio era al suo posto e che fra gli errori degli altri ora c’era anche il mio personalissimo errore.     

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