sabato 5 agosto 2017

ULTIME PAROLE DEL CUSTODE di Roberta Sandrini


 I

 

Da quando ho memoria sono questi i miei ricordi.

Staccati l’uno dall’altro, immagini che si susseguono, apparizioni splendenti come splendente e solenne e’ ogni cosa qua che mi circonda, le rocce, le sabbie, perfino le piccole orme delle bestie affrettate o striscianti che si ritrovano la mattina presto nel letto secco dei vecchi torrenti. 

Pure il vento, nelle giornate serene, benché invisibile ed incorporeo, soffia col passo ben ponderato della processione che precede il gioco, ne’ troppo forte ne’ troppo lieve, carezzando la sabbia senza sollevarla, solo a tratti, passandoci sopra come una mano decisa ed allo stesso tempo carezzevole, in modo che la sabbia scorra repentinamente e tuttavia dolcemente dall’alto ai piedi delle dune, in modo che scorra col fruscio di una veste leggera e con lo scroscio sonoro di un ruscello, dal ciglio delle rocce ai loro piedi.

Può essere che un  tempo conservassi dentro di me altre immagini, ma man mano le ho perse.

Ed ora come ora tutto quello che ricordo sono questi monti neri, lucidi come vasi di bronzo, che riflettono i raggi del sole in un’ unica grande vampata bianca ed accecante, che tuttavia non riesce neppure per un attimo a sopraffare l’azzurro squillante e profondo del cielo.

Sono queste dune altissime, sdraiate curve e morbide come donne su un letto disfatto, dopo aver avuto un figlio, dopo aver ricevuto un amante, immote sotto il sole, gialle all’alba, marrone infuocato al tramonto, piene dei sussurri e dei fremiti delle sabbie, che non si fermano mai, che non tacciono mai, le sabbie fatte di niente, le sabbie, povera e minuscola polvere animata, eppure responsabile della vita e della morte delle dune, col suo volersi dare al vento per vedere e conoscere un infinitesimo pezzo di cielo, un piccolo raggio riflesso dai monti di bronzo, invece di rimanere ferma e lasciare immota per sempre la sua duna sotto il sole.

La sabbia come certi piccoli insetti che possono tuttavia instillare malattie mortali.

E’ il ragno che mi siede accanto nella luce dell’alba, rosea e delicata sul suo dorso ispido , bianco e nero, sulle sue lunghe zampe, curve e sinuose come le anse di un vaso, ed insieme la ammiriamo, io coi miei due occhi lui con le sue quattro o cinque pupille, piccole e rosse, al culmine di un unico occhio, sporgente ed ammiccante sul mondo.  

Sono queste rocce, nere macchie informi di notte, spiriti acquattati pronti ad impadronirsi delle rare anime che passano di qui, fuochi divenuti pietra di giorno, piene di riflessi accesi che ruotano e si muovono, seguendo il giro del sole, molte strette le une alle altre, compatte, a formare muri sbrecciati e puntuti, molte gia’ quasi fattesi sabbia, che si sciolgono in lingue roventi, ad imitazione dei vecchi torrenti e delle vecchie piccole cascate che esistevano qui un tempo.

Sono i piccoli specchi d’acqua, le sorgenti timide e senza alcun rumore, giacché niente trova qui la forza di scorrere,  di mettersi contro le rocce e le sabbie, specchi che possiedono solo il riflesso nitido del cielo, annunciate in grembo ad una duna od in mezzo ad una pietraia da una siepe verde, da bassi cespugli spinosi eppure a volte pieni di fiori, delicate corolle bianche con un unico occhio giallo spalancato nel sole: siepi e fiori che mi indicano dove trovare l’acqua, quando sono costretto ad allontanarmi dal campo per farne rifornimento, piccole vite che mi insegnarono l’esistenza del colore verde, squillante e maestoso, l’esistenza dei fiori.

E’ il cielo di notte, che sprofonda in se’ stesso dopo aver cercato di rincorrere il sole, facendosi prima rosa, poi rosso, poi violaceo per lo sforzo, e sputa fuori le stelle, riverberi lontani e pallidi nel corpo morto del firmamento.           

Venni qui che ero molto giovane e qui ho vissuto quasi tutta la mia vita, in queste poche stanze scavate nel fianco della roccia piu’ grande dei dintorni, a custodia del campo di gioco.

In fondo non era necessario che conoscessi molte cose per fare ciò a cui ero stato destinato, far sì che il campo non si riempisse di sabbia, pregare all’alba ed al tramonto davanti alle immagini immote e severe degli dei, scolpite ai quattro angoli del campo, cercare di tenere a mente lo scorrere dei mesi e delle stagioni, malgrado il mio orizzonte fosse sempre uguale a se’ stesso, per accendere, al  momento opportuno, i fuochi intorno al campo e fra le rocce, che dovevano indicare la via alla carovana.


Per questo credo, ripeto, fui condotto qui molto giovane, quasi bambino, con poche cose da conservare con me e pochi rudimenti appresi, durante il viaggio, dalle persone che mi condussero qui, su come trovare le sorgenti d’acqua, come cacciare i serpenti, le piccole
volpi ed i rari uccelli di passo che mi fanno da cibo, e per questo non ho altri ricordi che le immagini di cui vi parlavo prima. 
 
II
 
I giochi si svolgevano una volta per stagione.
La carovana arrivava due o tre giorni e montava le tende a poca distanza dal campo: io davo una mano, correvo e mi davo da fare dove c’era bisogno, portavo acqua, legna per il fuoco, riempivo bicchieri di vino e coprivo vassoi di cibo.
I cavalli li ammiravo solo da lontano, era esclusivo appannaggio dei giocatori occuparsene; invece potevo governare i dromedari: recavo loro cibo, levavo loro i pesanti coltroni di lana e cuoio che avevano fatto da selle ai viaggiatori più anziani , fossero essi sacerdoti o spettatori, riempivo grossi secchi di rame d’acqua e glieli portavo : mi guardavano con aria stanca e benevola ed emettevano un grido rauco, che interpretavo come una sorta di ringraziamento.
E questi sono stati gli unici animali, che non fossero uccelli, serpenti, ragni o le piccole volpi timorose e svelte, che lasciano un riflesso argentato sulle rocce quando vi corrono in mezzo di notte, gli unici animali che abbia mai conosciuto.
I cavalieri, i sacerdoti ed i viaggiatori (certo tutti di nobili origini, a giudicare dai loro abbigliamenti e dalle loro armi) raramente mi rivolgevano la parola, se non per impartire brevi ordini o per discorsi letteralmente privi di senso, o battute di cui ero io a non cogliere il senso , che mi rivolgevano dopo aver bevuto: mi era stato detto che i custodi sono in genere ragazzi di umili origini, che i sacerdoti destinano al loro compito per beneficare loro o le loro famiglie, distintesi per devozione e pietà, e quindi non me ne stupivo ne’ offendevo.
Le donne che a volte accompagnavano la carovana si rivolgevano a me in modo più gentile.
Della loro esistenza ero informato attraverso i discorsi che udivo dai componenti della carovana, e da brevi sprazzi che irrompevano nella mia mente, un braccio affusolato e bianco che usciva da vesti modeste e si avvicinava al mio viso per una breve carezza, un ricciolo di forma simile e di colori diversi, una pietra colorata sotto una piccola bocca sorridente e sopra un petto delicato: ricordi di mia madre e di sorelle presumo.
Alcune di queste donne erano come i fiori che sbocciano nel deserto dopo le rarissime piogge.
Improvvisamente colorati, spavaldamente sgargianti, ansiosi di apparire alle sabbie, al cielo ed alle rocce.
Con la bocca vermiglia o rosa, i capelli lucenti ed innaturalmente rossi o chiari, sempre in contrasto con le carnagioni, gli ornamenti dorati e rotondi su petti larghi ed appuntiti,  coperte di veli trasparenti e variopinti, come corolle: mi rivolgevano lunghi sguardi dritti che mi avvolgevano e mi intimidivano, pronunciando frasi che volevano essere cordiali e rivelavano una sorta di sfida, che mi attraeva e mi respingeva ad un tempo, come la vista dei giochi.
Di notte passavano veloci per l’accampamento, infilandosi a volte in una tenda a volte nell’altra, con rapidi ed ariosi riflessi cangianti, come i riflessi d’argento delle volpi che corrono fra le rocce in vista di qualche piccolo serpente.
Altre donne accompagnavano talvolta un giocatore, restando alcuni passi dietro a lui, discrete e potenti nelle loro vesti drappeggiate come le sabbie che scorrono di qua e di la’ della duna, determinandone la forma e la fine: i loro sguardi erano compassionevoli, come se dividessero con me una sorta di comune destino di solitudine e paziente attesa di qualcosa che potrebbe anche non rivelarsi mai, le loro poche parole gentili al punto tale da ricreare sul mio volto la carezza dei ricordi.
Il giorno dei giochi ero libero, nessuno si curava di me, ed andavo  a sedermi in disparte dagli altri spettatori, al bordo del campo, che era un ampio rettangolo di sabbia, contornato da dieci ordini di spalti bassi e larghi: ai quattro angoli le statue alte e severe degli dei, con le braccia corte ritratte sui fianchi e gli occhi tondi, spalancati sullo spettacolo degli uomini.
I sacerdoti entravano in quattro gruppi, con litanie gravi, ognuno dei quali si recava presso una statua per cospargerla di vino, latte e fiori: ritiratisi loro, senza preamboli ne’ annunci, irrompevano sul campo i cavalieri.

Lo spettacolo certo era degno di nota, il balenare delle spade fra le criniere arruffate dei cavalli, il riflesso improvviso, come una lingua di fuoco bianco, del sole su uno scudo, le grida, gli scatti all’indietro ed i ritorni degli zoccoli, la curva discendente delle lance: e tuttavia non tale da far dimenticare i morti accidentali (era infatti vietato uccidere intenzionalmente).
La caduta pesante o stranamente aggraziata, nel sangue che iniziava a scorrere silenzioso e rapido come la sabbia sulla cresta delle dune, e gli occhi sbarrati e stupefatti che riuscivano all’improvviso a sostenere lo sguardo del sole.
La squadra vincitrice riceveva un grande scudo d’argento, con l’immagine di uno dei quattro dei, dai sacerdoti.          
 
III
Da qualche anno i giochi non si svolgono più. Nessuna carovana raggiunge più il campo, che nonostante i miei sforzi si sta riempiendo di sabbia.
Dovrebbero essere tre o quattro anni, anche se il tempo e le stagioni sono quasi tutte uguali qua.
Non so cosa e’ successo (Una legge ha abolito i giochi? E nessuno ha protestato, nessuno ha cercato di impedire la scomparsa di una tradizione così antica? Qualcuno che non doveva morire è invece caduto accidentalmente sul campo? Ma qualsiasi giocatore, dai tempi più antichi, conosce ed accetta ciò a cui va incontro partecipando , ed infatti dal gioco sono esclusi gli eredi al trono e gli altri componenti della famiglia reale, i sommi sacerdoti, gli alti funzionari!).
Per molte notti l’angoscia e le domande mi hanno tenuto sveglio.
Angoscia che mi ha stretto ancora di più, impedendomi per alcuni giorni persino di pensare e permettendomi di respirare solo a fatica, alcuni giorni fa, quando, spintomi volutamente più lontano a caccia di uccelli, sperando di intravedere la carovana dei giochi, mi sono imbattuto invece in una carovana di mercanti, uno dei quali mi ha parlato di una guerra, che ha infuriato violenta fino a poco tempo fa riducendo la capitale in rovina.
Sconvolto mi sono congedato rapidamente; non ha chiesto chi fossi e perché facessi quelle domande, probabilmente il mio ruolo di custode del campo è noto anche agli stranieri? Forse che si favoleggia di me e si raccontano storie sul mio conto fra i fuochi del deserto?
Piuttosto dovevo chiedere a quei mercanti di accompagnarmi a loro almeno per un tratto, cercando di avvicinarmi alla capitale, invece di farmi prendere dall’emozione e dalla disperazione: del resto della capitale ho cosi’ pochi e radi ricordi, che magari non la riconoscerei nemmeno, se mi capitasse di intravederla da lontano o anche di entrarci.
Tuttavia ho preso la decisione di partire domani alle prime luci dell’alba.
Ho radunato le pergamene in cui sono raccolte tutte le formule e le storie legate ai giochi sul mio giaciglio, ed ho chiuso le poche finestre con grossi sassi raccolti fra le pietre, per impedire che la sabbia prenda possesso del mio povero rifugio e seppellisca tutto.
Ho chiuso nella bisaccia tutta l’acqua che penso di poter trasportare ed alcune prede (anche una piccola volpe, una delle pochissime volte che ho deciso di cacciarne una, mi consola il fatto che forse sarà anche l’ultima volta).
Mi incamminerò verso il punto dove ho incontrato i mercanti, forse e’ una delle vie battute dalle loro carovane nel deserto, poi aspetterò lì, se riuscirò a trovare un rifugio, o forse proseguirò il mio cammino.
Forse riuscirò ad arrivare alla capitale o forse morirò molto prima, lungo il cammino, ed in un caso e nell’altro avrò assolto il mio compito.
    
 

 


 

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