sabato 5 agosto 2017

NEL GETSEMANI di Roberta Vannucci


Se ne stava seduta lì ogni giorno. Sulla stessa panchina di quel giardino dove gli ulivi bassi e nodosi erano sparsi a pioggia sul terreno in discesa. In basso la città, regale, eccelsa, sensazionale. Un getsemani pagano sospeso tra cielo e orizzonte, immobile come il paesaggio che si apriva dall’alto in un quadro sempre uguale in cui le uniche cose a cambiare erano le luci e le ombre al mutare delle stagioni e al dispiegarsi del tempo. Quello era diventato il suo posto per caso. E perché era sempre aperto, anche nei giorni festivi. Lei sedeva composta, lo sguardo vitreo perso lontano correva libero scivolando da un tetto all’altro, da un campanile a una villa, senza mai stancarsi della bellezza sfolgorante di quella città antica. Il giornale e le sigarette sempre a portata di mano, distante dal resto delle persone, la donna era talvolta attratta da qualche rumore: bambini che urlavano contro genitori, genitori che urlavano contro bambini, cani tirati da padroni, padroni tirati da cani. Le solite semplici cose. La solita semplice vita. Più spesso sonnecchiava, corpo e alito appesantiti da un torpore che sapeva di vecchio e di igiene trascurata. Chissà, forse un tempo era stata anche bella o almeno piacente. Impossibile dirlo ora che nessun trucco, neanche pesante, avrebbe potuto celare i difetti dell’età. Era seduta lì anche quel giorno di un inverno qualsiasi, freddo come tutti gli altri inverni, solitario e malinconico come sempre lo è la fine di ogni cosa. Troppo freddo anche per lasciarsi incantare dal paesaggio che pure, solo più grigio e un po’ più stanco, continuava insensibile a riflettere la solita bellezza. Nessun ricordo ad alleviare il gelo, neanche un incubo per distrarla. Poi un odore la riportò indietro nel tempo. Ripensò alle sere davanti al fuoco, quando era bambina e se ne stava accovacciata in braccio a suo padre, mentre sua madre cullava Mariuccia e il gatto faceva la posta ai topi dietro la madia. Sentì il tepore di quel fuoco e delle braccia forti di suo padre, sentì il suo profumo acre di muschio e di tabacco odoroso, gentile, familiare, profumo di primo amore, di infanzia e di sonni tranquilli. Il fuoco giocherellava di fronte a lei, la chiamava, le bisbigliava parole conosciute ammiccando benigno dalla cornice dei suoi ricordi infantili. Avrebbe voluto avvicinarsi per sentirne tutto il calore come un tempo, avrebbe voluto inseguirlo ora che d’un tratto sembrava allontanarsi, risucchiato dai luoghi bui della sua memoria fatta a pezzi dal tempo trascorso, che era ormai troppo. Provò ad alzarsi e a correre. E corse. Corse senza bisogno di gambe, corse senza bisogno di fiato finché non riuscì a raggiungerlo e a toccarlo. Provò un dolore acuto, tremendo, fortissimo e penetrante. Aprì d’improvviso gli occhi ma ormai era tardi per capire che si era addormentata senza accorgersi di nulla. Tardi per capire che il fuoco era reale e la stava divorando per davvero. Tardi per salvare il suo corpo di vecchia barbona. Ma ancora in tempo per salvare un’ultima immagine di quella città incantevole.   

 

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