sabato 5 agosto 2017

CUCCIA PER CANI di Donatella Quartarone


Andando indietro di parecchi anni mi rivedo adolescente inquieta, magra, con i codini, in macchina con mio padre, diretti al Camping la Baia Azzurra di Follonica.
"Ma insomma, esiste questo campeggio o te lo sei inventato?”


“Eccolo babbo! Ci siamo passati davanti tre volte e non l’abbiamo visto!”

Dopo lunghe e snervanti trattative ero riuscita ad ottenere il grande regalo di trascorrere una settimana in campeggio con l’amica Rossella; finalmente libera, lontana da genitori apprensivi e fratelli impiccioni tra i piedi. Unica condizione, da non potere assolutamente rifiutare: il babbo mi avrebbe accompagnato fino alla tenda e sarebbe venuto a riprendermi dopo sette giorni.

Poiché la tenda in questione era una minuscola canadese alta poco più di un metro, la sera prima della partenza pregai al telefono la mia amica, già sul posto, di risolvere in qualche modo l’annosa questione poiché il babbo non mi avrebbe mai permesso di dormire in quella cuccia per cani; avrebbe sicuramente girato la macchina riportandomi in seno alla famiglia a Castiglioncello, dove aveva preso in affitto una spaziosa villetta per tutto il mese di agosto e dove mi aspettava una vacanza pallosissima in una località molto bella ma, a quei tempi, frequentata sfortunatamente da odiosi  sgobboni  con la puzza sotto il naso.

“Non ti preoccupare!” mi aveva tranquillizzato l’intraprendente Rossella, “mi faccio prestare una tenda più grande da qualche vicino di campeggio e tuo padre ci cascherà senza sospettare nulla!”

E così fu. Al nostro arrivo, Rossella, sfoggiando il suo sorriso più smagliante, ci mostrò una tenda veranda, più grande della mia camera da letto, estorta in gran fretta a due sprovveduti studenti di medicina, in cambio di un paio di sostanziose cene a base di pasta con il tonno, simmenthal e pomodori.

Ebbe addirittura la sfacciataggine di presentare i due brufolosi spilungoni a mio padre, che se ne ripartì tristissimo, lasciandomi un senso di colpa da tagliare con il coltello. 

Salutato il povero babbo, del tutto ignaro, riprendemmo possesso della nostra cuccia ed ebbe inizio così la nostra intensa settimana da leoni…anzi, da leonesse, della quale conservo ancora un vivo e tenero ricordo.

Rossella ed io diventammo in breve due selvagge. Stavamo perennemente scalze e presto sotto i piedi si formò uno strato di pelle così duro da renderli insensibili a qualsiasi asperità del terreno. Come se avessimo indossato scarpette invisibili, scorrazzavamo sui sassi, sugli aghi di pino, sugli scogli senza farci male e avvertire il minimo dolore. L’acqua marina era così pulita che spesso non sentivamo il bisogno di fare la doccia; mi piaceva sentirmi addosso quel sottile velo di salsedine; leccarmi la pelle salata mi dava una sensazione strana e meravigliosa.

In pochissimo tempo facemmo amicizia con tutti i campeggiatori, per lo più nostri coetanei.

La sera accendevamo un bel falò sulla spiaggia. E tutti intorno, incantati da quell’allegro scoppiettare, cantavamo, strimpellavamo la chitarra, mangiavamo panini pieni di sabbia, bevevamo gassosa e spuma e i più grandi si scolavano una birretta a testa, attenti a non gettare i vuoti che poi ci sarebbero serviti a fare il gioco della bottiglia o ruba bacio.

I più spregiudicati si facevano di nascosto uno spinello, in modo discreto. Io l’ho saputo dopo perché, imbranata come ero, non me ne sono mai accorta, forse perché l’odore dell’erba si confondeva con quello del fuoco.

Spesso, nelle serate più calde, c’era la belloccia del gruppo che a mezzanotte proponeva il bagno in mare, da fare rigorosamente nudi! Ricordo questa tipa piena di curve, un po’ più grande e disinvolta di noi due che si alzava di scatto e al grido “E ora tutti in acqua!!” si scioglieva le lunghe chiome, seminava sulla rena maglietta, pantaloni e slip, uno dopo l’altro, come i sassolini di Pollicino ed entrava intrepida in mare, seguita a ruota dai maschietti adoranti e dallo sguardo voglioso.La vista di quei sederi bianchi come polli di allevamento non era proprio esaltante per noi ragazzine, rimaste incollate davanti al falò, ben intenzionate a non cedere ai loro richiami.

Trovavamo le scuse più varie. “Sono raffreddata, ho le mie cose, ho mal di pancia, non ho digerito”.

La verità era che ci vergognavamo da morire. Ma a niente servivano le nostre suppliche. Quei deficienti ci pigliavano di peso e ci buttavano direttamente in mare, vestite, che a quel punto era peggio che nude. Perché uscire dall’acqua con quegli indumenti ghiacci appiccicati addosso era una vera tortura. Allora il fuoco del falò, ormai quasi spento, veniva nuovamente alimentato e potevamo così asciugarci, senza niente addosso, coperte da un asciugamano. Ricordo come era piacevole quella sensazione di calore sulla pelle e poi c’era sempre qualcuno, particolarmente furbetto,
che ci massaggiava la schiena
per riattivare, diceva, la circolazione.
Ci rimettevamo di nuovo intorno al falò, in assoluto silenzio, qualcuno mezzo addormentato, a osservare la fiamma che piano piano si spegneva. Solo quando rimaneva un minuscolo tizzone, una lucciola di luce, ci alzavamo, senza fretta, e assonnati ci dirigevamo nelle nostre tende.
 
Trascorsero alcuni anni da quella breve e movimentata vacanza.
Una volta, mentre viaggiavo in macchina con mio padre, ebbi un sobbalzo al cuore appena sentii alla radio le note di una canzone di Bob Dylan, Mr. Tambourine Man, proprio una di quelle che cantavamo la sera al campeggio davanti al falò. Quella musica mi riportò in un istante ad un’estate lontana e mi fece riaffiorare alla memoria quell’innocente bugia ormai dimenticata.
Decisi di raccontare tutto a mio padre. Mi ascoltò serio e silenzioso, con lo sguardo attento alla guida. Dio mio! pensai, vuoi vedere che si arrabbia anche se è passata un’eternità? Appena ebbi finito di parlare, si girò lentamente verso di me e un sorriso sornione illuminò i suoi incredibili occhi color salvia, di siciliano normanno.
“Io l’avevo capito subito, sai! Quando entrai a perlustrare la vostra tenda, o meglio quella che spacciavate per vostra, notai che sotto un materassino spuntava un manuale di medicina. E poi, come potevate farmi credere che i due spilungoni potessero stare in quella cuccia per cani?”
In tanti anni mai un’allusione, mai un accenno a quell’inganno innocente. Mi aveva vista troppo felice per la vacanza in campeggio, disse, e aveva preferito fare finta di nulla.
Ecco perché aveva un’espressione così mogia, quando, salutandomi all’uscita del Camping, mi aveva abbracciata forte forte e mi aveva detto mi raccomando una decina di volte.
 Poi era salito in macchina ed era partito.
 


 

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