1.
Il caso del signor Zufolotti si presentò da
subito alquanto bizzarro. Arrivò al pronto soccorso accompagnato dal vicino di
casa, il distinto signor Marinetti, indossando la veste da camera in seta,
quella corta con i risvolti rigati di blu. Il signor Zufolotti, intendo, perché
il signor Marinetti era già vestito per l’ufficio, con la cravatta fissata da
uno stemma argenteo e i polsini della camicia stretti dai gemelli del giovedì.
Lo aveva accompagnato lì per esaudire una richiesta della moglie, la quale aveva
incrociato Zufolotti sul pianerottolo notando subito che qualcosa non andava
come al solito. Innanzitutto perché, appunto, era in veste da camera:
un’abitudine decisamente inconsueta, per lo Zufolotti, quella di uscire di casa
non abbigliato in maniera pertinente. E poi perché, quando gli aveva rivolto
l’inevitabile buongiorno, quegli non aveva risposto. Si era limitato a
guardarla come se la vedesse per la prima volta, con gli occhi spalancati e le
pupille gigantesche che parevano due palle da biliardo - di quelle senza
numero, beninteso.
Il Marinetti stava anzi cominciando a dare
qualche segno di insofferenza all’ambiente asettico e chiaro dell’ospedale,
all’odore persistente del disinfettante che dalle narici risaliva fino ai seni
frontali, nonostante la barriera degli importanti mustacchi che gli ornavano il
labbro superiore. Ma non aveva potuto rifiutarsi di accompagnare Zufolotti,
perché si era reso conto anche lui che la situazione era inusuale e il vicino
di casa insolitamente silenzioso, oltreché vistosamente confuso. E poi perché,
diciamolo, la signora Marinetti sapeva essere decisamente autorevole, quando
sottoponeva al marito una richiesta - al punto che forse sarebbe più pertinente
definirlo un ordine.
Per cui, imbracciata la cartella in pelle con
cui abitualmente trasportava i documenti di lavoro a casa e da casa nuovamente
all’ufficio, il Marinetti aveva diligentemente condotto lo Zufolotti
all’ospedale della Contea per affidarlo alle sollecite cure dei solidi
professionisti che ivi praticano l’arte di Esculapio.
Ed era stato allora, mentre il Marinetti stava
finendo di esporre il caso al medico di turno (che lo aveva ascoltato distratto
dalla magnifica linea della stilografica con cui in realtà avrebbe dovuto
prendere appunti utili alla diagnosi - del resto gliela avevano regalata la
sera avanti, durante un festeggiamento per il recente fidanzamento con la
signorina Presuttini, deliziosa stenografa dalle lunghe ciglia che frequentava
con reciproca soddisfazione ormai da qualche mese) dicevamo era stato allora,
quando ormai il Marinetti pensava di aver concluso il compito che la moglie gli
aveva affidato e stava per congedarsi, che il dottore rivolse la parola allo
Zufolotti per chiedergli le generalità.
Lo Zufolotti lo guardò con la medesima
espressione da triglia che lo aveva accompagnato per tutta quella frazione di
mattina, entrambe - l’espressione e la frazione di mattina - largamente
distanti dalle rituali - espressioni e frazioni di mattine - a cui era avvezzo.
Quando il medico gli chiese nuovamente il suo
nome, a quel punto con un grado di attenzione decisamente maggiore di quello
prestato alla precedente spiegazione del Marinetti, lo Zufolotti aprì la bocca
con intenzione, ma dopo qualche secondo la richiuse senza emettere suono. Il
dottore, nel camice bianco stirato di fresco, si avvicinò allora allo
Zufolotti, come per guardarlo con maggiore accuratezza, rinnovando l’invito a
dire il proprio nome.
Allora avvenne. Lo Zufolotti aprì la bocca,
sollevò le sopracciglia e spalacò gli occhi, pronto a emettere il necessario
suono per esprimere il contenuto richiesto. Ma dalla sua bocca non uscì alcun
suono. Silenzio. Neanche un rumore gutturale, un grido, uno sforzo. Silenzio
totale. Al posto delle onde che avrebbero dovuto raggiungere l’apparato
auricolare dei presenti muovendosi nello spazio, però, dalla bocca di Zufolotti
qualcosa comunque uscì. Prima uno, poi due, poi diversi, fino a 23. Il dottore
si chinò per guardare in terra, dove erano caduti senza che lo Zufolotti
nemmeno accennasse ad afferrarli in corsa.
“Cosa diavolo sono quelli?” esclamò a mezzo tra
l’inorridito e l’interessato Marinetti. Senza rispondere, il dottore, bocconi,
proseguì a esaminare i reperti. Poi, infilato un guanto di lattice che aderiva
perfettamente alla forma delle mani, raccolse uno dopo l’altro gli oggetti
finiti in terra dalla bocca dello Zufolotti, che rimaneva impalato e
inespressivo a guardare il materiale che giaceva ai suoi piedi.
Una volta appoggiati sul vassoio di metallo
lucido, gli oggetti si dimostrarono inequivocabilmente per ciò che erano:
lettere. Lettere dell’alfabeto.
Quattro O, quattro I, due M due C e due T, e
poi in ordine sparso una di: E Z H A N R U F L .
Il dottore si assestò gli occhialini sul naso
con un gesto automatico rivelatore di una certa qual irrequietudine, quindi
guardò il povero Zufolotti che se ne stava ancora in piedi, davanti a lui, con
un’espressione avvilita. Un profondo silenzio carico di disagio calò nel
piccolo ambulatorio del pronto soccorso.
“È bene che chiami il primario. Con permesso”
Il dottore ruppe quell’assenza di suoni per
allontanarsi rapidamente a occhi bassi.
2.
“E questo cosa dovrebbe significare?”
L’illustre scienziato - che fosse illustre lo
si poteva facilmente dedurre dalla dimensione importante di baffi e addome; che
fosse uno scienziato, dal camice candido impeccabile e dal codazzo di studenti
e praticanti ossequiosi che lo seguivano perfettamente coordinati con i suoi
movimenti come ballerini di fila dietro la star dello spettacolo - avvicinò gli
occhiali al naso per osservare meglio i reperti diligentemente allineati sul
vassoio dal collega più giovane. Un ciuffo ribelle sfuggito alle maglie della
brillantina gli svenne sulla fronte, prontamente risistemato tra gli altri
dalle dita polpose e curatissime del luminare, mentre si chinava per
controllare le lettere portando il proprio viso molto, molto vicino a esse.
“Non è chiaro. Però… parrebbero lettere.
Lettere uscite dalla bocca del signore che vede seduto qui”, rispose il giovane
collega, indicando il povero Zufolotti accasciato su una sedia con i braccioli.
Ancora in veste da camera ma con un’aria sempre più afflitta, lo Zufolotti non
riusciva nemmeno a guardare i presenti, preferendo fissare il vuoto in
direzione indefinita.
“E dice che sono uscite mentre provava a
parlare, pur senza emettere suono?!
“Esatto”
“Mmmmm… un caso peculiare. Mi sentirei di
chiamare il collega neuropsichiatra”
“Ma non si tratterebbe piuttosto di un problema
di gola, o di cavo orale?” azzardò il giovane dottore.
“Il paziente non emette suono. È impossibilitato
a esprimersi”
“Suono no, in effetti. Si direbbe emetta…
parole”
“Curioso paradosso, emettere parole senza suono”
“Potremmo dire, forse, che il paziente scrive?
Esclamò uno dei neofiti del codazzo, in un eccesso di entusiasmo subito
incenerito da un’occhiata dello scienziato. E dopo questo tentativo ricalò il
silenzio tra gli astanti, fatto salvo il primo dottore che grazie all’interfono
comunicò che si era resa necessaria con una certa urgenza la presenza del
primario di neuropsichiatria giù al pronto soccorso.
3.
“Mi chiamo Enrico Zufolotti”
La frase non fu pronunciata dallo Zufolotti in
persona - o almeno non in quel momento -. Fu piuttosto declamata dal primo
dottore che, mentre attendeva il primario specialista dell’apparato cerebrale,
aveva ricomposto le lettere sul vassoio dando loro un senso compiuto, aiutato
dal Marinetti. E questa era, appunto, la frase emersa.
“Mi piace molto giocare a scarabeo” si
giustificò il giovane dottore, abbassando lo sguardo con aria imbarazzata
davanti allo sguardo severo dell’autorevole collega sopraggiunto nel frattempo
con il proprio codazzo di studenti e praticanti.
“E dunque, questo è il paziente. Enrico
Zufolotti”
La solennità con cui il secondo primario
declamò la frase, voce stentorea ed espressione cattedratica, rese
immediatamente l’atmosfera carica di attesa. Come se stesse per pronunciare la
diagnosi solo osservando la persona che gli stava di fronte, afflitta e
silenziosa.
Procedette quindi in direzione del tavolo su
cui erano disposte le lettere con un passo da gendarme; poi commentò quasi con
se stesso: “Curioso. Un uomo che non parla eppure emette parole, silenzioso ma
che esprime contenuti, muto ma che articola lettere”. Si avvicinò allo
Zufolotti, gli spalancò prima un occhio poi il successivo illuminando le
pupille con una piccola torcia tascabile, quindi gli domandò:
“Potrebbe dirmi il suo nome?”
Lo Zufolotti lo guardò con occhi profondamente
infelici. Poi aprì la bocca per parlare, ancora una volta. E ancora una volta,
invece dei suoni alle sue labbra affiorarono lettere: E N R I C O. Con insospettabile
agilità il dottore le acchiappò al volo prima che cadessero, appena spuntate
dalla bocca del paziente. Poi si raddrizzò sulla schiena, girandosi verso i
colleghi.
Il giovane dottore del pronto soccorso si
rinsaldò gli occhiali sul naso, nel suo gesto di inquietudine già sfoggiato in
precedenza.
“Miei cari” disse il dottore con soddisfatto
autocompiacimento, mentre avvicinava tra loro i polpastrelli delle cinque dita
aperte una di fronte all’altra, “Come potete facilmente osservare, il paziente
articola parole che prendono non forma, bensì sostanza. Parole che invece di
essere costituite da suoni, sono fatte di autentica materia. Parole concrete,
solide, ma pur sempre parole. Il silenzio che egli crea non è privo di
espressione. Non si tratta insomma di incapacità di trasportare all’esterno di
sé il contenuto di un pensiero, quanto piuttosto di farlo in un modo che non è
il tradizionale vocalizzo. In buona sostanza, signori, il paziente non spetta a
me”.
“E chi dovremmo consultare allora, secondo la
sua diagnosi?” chiese con fare leggermente ansioso il giovane dottore del
pronto soccorso.
“Mi pare evidente che la questione sia di
pertinenza del collega laringoiatra”.
4.
Quando sopraggiunse anche il primario di
laringoiatria con il suo legittimo codazzo, la situazione nel piccolo
ambulatorio cominciava a farsi complicata in termini di sovraffollamento. Senza
contare il brusio costante che un così elevato numero di persone strette in un
medesimo ambiente comportava in maniera quasi inevitabile. Il silenzio dello
Zufolotti, ormai visibilmente provato dalla situazione, contrastava con il
sottofondo sonoro che si era creato, aumentato dalle eco che si riverberavano
in tutto il reparto del pronto soccorso, dove il caso del muto che parla stava
rimbalzando di bocca in bocca come in un articolato telefono senza fili.
Il professore specializzato nelle malattie
dell’apparato orecchio, naso, faringe, laringe, cavo orale e altre strutture
correlate della testa e del collo si avvicinò alla faccia del povero Zufolotti
e con un gesto secco gli fece aprire la bocca, analizzandone la cavità con
grande cura.
Per qualche attimo il brusìo smise, in un
collettivo silenzioso momento di attesa del verdetto. Un silenzio irreale, che
si estendeva anche all’esterno del pronto soccorso, come se nel raggio di un
chilometro tutti fossero consapevoli che il nodo del bislacco problema del muto
che produceva parole stava per essere sciolto.
“Egregi colleghi, in tutta la mia carriera non
mi ero mai imbattuto in un caso simile, pur avendone ricordo dai libri di testo
universitari. Abbiamo qui un eccentrico caso di mutismo figurato. Una sorta di
afflizione filosofica prima ancora che fisica. Il paziente, signori, è affetto
da rara ma non impossibile sindrome da metonimia fisiologica della voce. Egli
insomma soffre di un eccentrico caso di trasferimento di significato dei
processi espressivi”.
I codazzi degli eminenti professori si
produssero in un soffocato mormorio di ammirazione mista a stupore.
“Come giustamente osservato dal collega di
neuropsichiatria, il problema non è di trasmissione dei contenuti, che pure in
maniera singolare avviene comunque. La questione si pone nella modalità di
trasmissione. Una modalità che non si avvale, come per la maggior parte dei
casi umani, della propagazione tramite vibrazione, bensì tramite creazione di
effettive lettere. Una maniera arcaica, che sta alla voce quanto l’uovo sta al
cucciolo di mammifero”
“Quindi, secondo il suo parere, come potremmo
risolvere il caso del malcapitato quipresente Enrico Zufolotti?” interloquì il
primo primario intervenuto.
Lo Zufolotti pareva rianimato dalla sua
prostrazione. Un lampo di speranza correva per i suoi occhi, rianimandone lo
sguardo spento.
“Suggerisco una terapia d’urto”
“Urto sonoro?”
“No, urto effettivo, urto fisico. Insomma,
rompete le lettere!”
E così esclamato, prese una E a caso e la colpì
con il martelletto per riflessi che portava nel taschino.
Ci fu un singulto corale dei tre codazzi
composti, che all’unisono espressero la loro sorpresa per l’inaspettato
movimento del laringoiatra, a cui seguì una frazione di secondo di silenzio
assoluto. Quindi dalle pareti sbriciolate della lettera colpita si sentì
provenire un labile suono: “eeeeEEEEEeee”.
Quindi seguì un rinnovato, attonito silenzio
degli astanti.
Per qualche attimo niente si mosse, nemmeno un
moscerino; fu allora che lo Zufolotti si rizzò in piedi, e afferrato il
martelletto dalle mani del primario, si avventò sulle lettere che aveva
prodotto, colpendole una dopo l’altra e liberandone così i suoni: “nrico mi
chiamo Enrico Zufolotti” - la prima E era stata già impropriamente utilizzata
dal primario, lasciando le altre lettere orfane di capofila.
Quando ebbe finito, rosso in viso e con un
fiatone degno di un buon tempo alla maratona di Verruschio, lo Zufolotti si
girò verso il professore e tutti gli altri presenti nello studio. Gli occhi
erano tornati vividi, l’espressione attenta, e la bocca finalmente allargata in
un sorriso. A quella apertura di credito, il pubblico dei codazzi presente si
produsse in un applauso scrosciante, che esprimeva allo stesso tempo
ammirazione per il primario che aveva individuato il caso e risolto
brillantemente la questione, gioia solidale per il paziente che dava segni di
ripresa e sollievo nel vedere superato un problema che pareva misterioso quanto
strambo, un problema che inquietava il loro inconscio prima ancora che le loro
lucide menti di aspiranti dottori.
In breve lo Zufolotti fu congedato
dall’ospedale, con grande soddisfazione del Marinetti che in tutto quel tempo
non era nemmeno riuscito ad avvisare in ufficio che avrebbe fatto tardi. Ma da
quel giorno lo Zufolotti venne visto sempre, sempre, con un piccolo martelletto
per riflessi nel taschino.
Per sicurezza.
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