lunedì 1 maggio 2017

IL CASO DEL SIGNOR ZUFOLOTTI di Sabrina Carollo

1.
Il caso del signor Zufolotti si presentò da subito alquanto bizzarro. Arrivò al pronto soccorso accompagnato dal vicino di casa, il distinto signor Marinetti, indossando la veste da camera in seta, quella corta con i risvolti rigati di blu. Il signor Zufolotti, intendo, perché il signor Marinetti era già vestito per l’ufficio, con la cravatta fissata da uno stemma argenteo e i polsini della camicia stretti dai gemelli del giovedì. Lo aveva accompagnato lì per esaudire una richiesta della moglie, la quale aveva incrociato Zufolotti sul pianerottolo notando subito che qualcosa non andava come al solito. Innanzitutto perché, appunto, era in veste da camera: un’abitudine decisamente inconsueta, per lo Zufolotti, quella di uscire di casa non abbigliato in maniera pertinente. E poi perché, quando gli aveva rivolto l’inevitabile buongiorno, quegli non aveva risposto. Si era limitato a guardarla come se la vedesse per la prima volta, con gli occhi spalancati e le pupille gigantesche che parevano due palle da biliardo - di quelle senza numero, beninteso.
Il Marinetti stava anzi cominciando a dare qualche segno di insofferenza all’ambiente asettico e chiaro dell’ospedale, all’odore persistente del disinfettante che dalle narici risaliva fino ai seni frontali, nonostante la barriera degli importanti mustacchi che gli ornavano il labbro superiore. Ma non aveva potuto rifiutarsi di accompagnare Zufolotti, perché si era reso conto anche lui che la situazione era inusuale e il vicino di casa insolitamente silenzioso, oltreché vistosamente confuso. E poi perché, diciamolo, la signora Marinetti sapeva essere decisamente autorevole, quando sottoponeva al marito una richiesta - al punto che forse sarebbe più pertinente definirlo un ordine.
Per cui, imbracciata la cartella in pelle con cui abitualmente trasportava i documenti di lavoro a casa e da casa nuovamente all’ufficio, il Marinetti aveva diligentemente condotto lo Zufolotti all’ospedale della Contea per affidarlo alle sollecite cure dei solidi professionisti che ivi praticano l’arte di Esculapio.
Ed era stato allora, mentre il Marinetti stava finendo di esporre il caso al medico di turno (che lo aveva ascoltato distratto dalla magnifica linea della stilografica con cui in realtà avrebbe dovuto prendere appunti utili alla diagnosi - del resto gliela avevano regalata la sera avanti, durante un festeggiamento per il recente fidanzamento con la signorina Presuttini, deliziosa stenografa dalle lunghe ciglia che frequentava con reciproca soddisfazione ormai da qualche mese) dicevamo era stato allora, quando ormai il Marinetti pensava di aver concluso il compito che la moglie gli aveva affidato e stava per congedarsi, che il dottore rivolse la parola allo Zufolotti per chiedergli le generalità.
Lo Zufolotti lo guardò con la medesima espressione da triglia che lo aveva accompagnato per tutta quella frazione di mattina, entrambe - l’espressione e la frazione di mattina - largamente distanti dalle rituali - espressioni e frazioni di mattine - a cui era avvezzo.
Quando il medico gli chiese nuovamente il suo nome, a quel punto con un grado di attenzione decisamente maggiore di quello prestato alla precedente spiegazione del Marinetti, lo Zufolotti aprì la bocca con intenzione, ma dopo qualche secondo la richiuse senza emettere suono. Il dottore, nel camice bianco stirato di fresco, si avvicinò allora allo Zufolotti, come per guardarlo con maggiore accuratezza, rinnovando l’invito a dire il proprio nome.
Allora avvenne. Lo Zufolotti aprì la bocca, sollevò le sopracciglia e spalacò gli occhi, pronto a emettere il necessario suono per esprimere il contenuto richiesto. Ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Silenzio. Neanche un rumore gutturale, un grido, uno sforzo. Silenzio totale. Al posto delle onde che avrebbero dovuto raggiungere l’apparato auricolare dei presenti muovendosi nello spazio, però, dalla bocca di Zufolotti qualcosa comunque uscì. Prima uno, poi due, poi diversi, fino a 23. Il dottore si chinò per guardare in terra, dove erano caduti senza che lo Zufolotti nemmeno accennasse ad afferrarli in corsa.
“Cosa diavolo sono quelli?” esclamò a mezzo tra l’inorridito e l’interessato Marinetti. Senza rispondere, il dottore, bocconi, proseguì a esaminare i reperti. Poi, infilato un guanto di lattice che aderiva perfettamente alla forma delle mani, raccolse uno dopo l’altro gli oggetti finiti in terra dalla bocca dello Zufolotti, che rimaneva impalato e inespressivo a guardare il materiale che giaceva ai suoi piedi.
Una volta appoggiati sul vassoio di metallo lucido, gli oggetti si dimostrarono inequivocabilmente per ciò che erano: lettere. Lettere dell’alfabeto.
Quattro O, quattro I, due M due C e due T, e poi in ordine sparso una di: E Z H A N R U F L .
Il dottore si assestò gli occhialini sul naso con un gesto automatico rivelatore di una certa qual irrequietudine, quindi guardò il povero Zufolotti che se ne stava ancora in piedi, davanti a lui, con un’espressione avvilita. Un profondo silenzio carico di disagio calò nel piccolo ambulatorio del pronto soccorso.
“È bene che chiami il primario. Con permesso”
Il dottore ruppe quell’assenza di suoni per allontanarsi rapidamente a occhi bassi.

2.
“E questo cosa dovrebbe significare?”
L’illustre scienziato - che fosse illustre lo si poteva facilmente dedurre dalla dimensione importante di baffi e addome; che fosse uno scienziato, dal camice candido impeccabile e dal codazzo di studenti e praticanti ossequiosi che lo seguivano perfettamente coordinati con i suoi movimenti come ballerini di fila dietro la star dello spettacolo - avvicinò gli occhiali al naso per osservare meglio i reperti diligentemente allineati sul vassoio dal collega più giovane. Un ciuffo ribelle sfuggito alle maglie della brillantina gli svenne sulla fronte, prontamente risistemato tra gli altri dalle dita polpose e curatissime del luminare, mentre si chinava per controllare le lettere portando il proprio viso molto, molto vicino a esse.
“Non è chiaro. Però… parrebbero lettere. Lettere uscite dalla bocca del signore che vede seduto qui”, rispose il giovane collega, indicando il povero Zufolotti accasciato su una sedia con i braccioli. Ancora in veste da camera ma con un’aria sempre più afflitta, lo Zufolotti non riusciva nemmeno a guardare i presenti, preferendo fissare il vuoto in direzione indefinita.
“E dice che sono uscite mentre provava a parlare, pur senza emettere suono?!
“Esatto”
“Mmmmm… un caso peculiare. Mi sentirei di chiamare il collega neuropsichiatra”
“Ma non si tratterebbe piuttosto di un problema di gola, o di cavo orale?” azzardò il giovane dottore.
“Il paziente non emette suono. È impossibilitato a esprimersi”
“Suono no, in effetti. Si direbbe emetta… parole”
“Curioso paradosso, emettere parole senza suono”
“Potremmo dire, forse, che il paziente scrive? Esclamò uno dei neofiti del codazzo, in un eccesso di entusiasmo subito incenerito da un’occhiata dello scienziato. E dopo questo tentativo ricalò il silenzio tra gli astanti, fatto salvo il primo dottore che grazie all’interfono comunicò che si era resa necessaria con una certa urgenza la presenza del primario di neuropsichiatria giù al pronto soccorso.


3.
“Mi chiamo Enrico Zufolotti”
La frase non fu pronunciata dallo Zufolotti in persona - o almeno non in quel momento -. Fu piuttosto declamata dal primo dottore che, mentre attendeva il primario specialista dell’apparato cerebrale, aveva ricomposto le lettere sul vassoio dando loro un senso compiuto, aiutato dal Marinetti. E questa era, appunto, la frase emersa.
“Mi piace molto giocare a scarabeo” si giustificò il giovane dottore, abbassando lo sguardo con aria imbarazzata davanti allo sguardo severo dell’autorevole collega sopraggiunto nel frattempo con il proprio codazzo di studenti e praticanti.
“E dunque, questo è il paziente. Enrico Zufolotti”
La solennità con cui il secondo primario declamò la frase, voce stentorea ed espressione cattedratica, rese immediatamente l’atmosfera carica di attesa. Come se stesse per pronunciare la diagnosi solo osservando la persona che gli stava di fronte, afflitta e silenziosa.
Procedette quindi in direzione del tavolo su cui erano disposte le lettere con un passo da gendarme; poi commentò quasi con se stesso: “Curioso. Un uomo che non parla eppure emette parole, silenzioso ma che esprime contenuti, muto ma che articola lettere”. Si avvicinò allo Zufolotti, gli spalancò prima un occhio poi il successivo illuminando le pupille con una piccola torcia tascabile, quindi gli domandò:
“Potrebbe dirmi il suo nome?”
Lo Zufolotti lo guardò con occhi profondamente infelici. Poi aprì la bocca per parlare, ancora una volta. E ancora una volta, invece dei suoni alle sue labbra affiorarono lettere: E N R I C O. Con insospettabile agilità il dottore le acchiappò al volo prima che cadessero, appena spuntate dalla bocca del paziente. Poi si raddrizzò sulla schiena, girandosi verso i colleghi.
Il giovane dottore del pronto soccorso si rinsaldò gli occhiali sul naso, nel suo gesto di inquietudine già sfoggiato in precedenza.
“Miei cari” disse il dottore con soddisfatto autocompiacimento, mentre avvicinava tra loro i polpastrelli delle cinque dita aperte una di fronte all’altra, “Come potete facilmente osservare, il paziente articola parole che prendono non forma, bensì sostanza. Parole che invece di essere costituite da suoni, sono fatte di autentica materia. Parole concrete, solide, ma pur sempre parole. Il silenzio che egli crea non è privo di espressione. Non si tratta insomma di incapacità di trasportare all’esterno di sé il contenuto di un pensiero, quanto piuttosto di farlo in un modo che non è il tradizionale vocalizzo. In buona sostanza, signori, il paziente non spetta a me”.
“E chi dovremmo consultare allora, secondo la sua diagnosi?” chiese con fare leggermente ansioso il giovane dottore del pronto soccorso.
“Mi pare evidente che la questione sia di pertinenza del collega laringoiatra”.



4.
Quando sopraggiunse anche il primario di laringoiatria con il suo legittimo codazzo, la situazione nel piccolo ambulatorio cominciava a farsi complicata in termini di sovraffollamento. Senza contare il brusio costante che un così elevato numero di persone strette in un medesimo ambiente comportava in maniera quasi inevitabile. Il silenzio dello Zufolotti, ormai visibilmente provato dalla situazione, contrastava con il sottofondo sonoro che si era creato, aumentato dalle eco che si riverberavano in tutto il reparto del pronto soccorso, dove il caso del muto che parla stava rimbalzando di bocca in bocca come in un articolato telefono senza fili.
Il professore specializzato nelle malattie dell’apparato orecchio, naso, faringe, laringe, cavo orale e altre strutture correlate della testa e del collo si avvicinò alla faccia del povero Zufolotti e con un gesto secco gli fece aprire la bocca, analizzandone la cavità con grande cura.
Per qualche attimo il brusìo smise, in un collettivo silenzioso momento di attesa del verdetto. Un silenzio irreale, che si estendeva anche all’esterno del pronto soccorso, come se nel raggio di un chilometro tutti fossero consapevoli che il nodo del bislacco problema del muto che produceva parole stava per essere sciolto.
“Egregi colleghi, in tutta la mia carriera non mi ero mai imbattuto in un caso simile, pur avendone ricordo dai libri di testo universitari. Abbiamo qui un eccentrico caso di mutismo figurato. Una sorta di afflizione filosofica prima ancora che fisica. Il paziente, signori, è affetto da rara ma non impossibile sindrome da metonimia fisiologica della voce. Egli insomma soffre di un eccentrico caso di trasferimento di significato dei processi espressivi”.
I codazzi degli eminenti professori si produssero in un soffocato mormorio di ammirazione mista a stupore.
“Come giustamente osservato dal collega di neuropsichiatria, il problema non è di trasmissione dei contenuti, che pure in maniera singolare avviene comunque. La questione si pone nella modalità di trasmissione. Una modalità che non si avvale, come per la maggior parte dei casi umani, della propagazione tramite vibrazione, bensì tramite creazione di effettive lettere. Una maniera arcaica, che sta alla voce quanto l’uovo sta al cucciolo di mammifero”
“Quindi, secondo il suo parere, come potremmo risolvere il caso del malcapitato quipresente Enrico Zufolotti?” interloquì il primo primario intervenuto.
Lo Zufolotti pareva rianimato dalla sua prostrazione. Un lampo di speranza correva per i suoi occhi, rianimandone lo sguardo spento.
“Suggerisco una terapia d’urto”
“Urto sonoro?”
“No, urto effettivo, urto fisico. Insomma, rompete le lettere!”
E così esclamato, prese una E a caso e la colpì con il martelletto per riflessi che portava nel taschino.
Ci fu un singulto corale dei tre codazzi composti, che all’unisono espressero la loro sorpresa per l’inaspettato movimento del laringoiatra, a cui seguì una frazione di secondo di silenzio assoluto. Quindi dalle pareti sbriciolate della lettera colpita si sentì provenire un labile suono: “eeeeEEEEEeee”.
Quindi seguì un rinnovato, attonito silenzio degli astanti.
Per qualche attimo niente si mosse, nemmeno un moscerino; fu allora che lo Zufolotti si rizzò in piedi, e afferrato il martelletto dalle mani del primario, si avventò sulle lettere che aveva prodotto, colpendole una dopo l’altra e liberandone così i suoni: “nrico mi chiamo Enrico Zufolotti” - la prima E era stata già impropriamente utilizzata dal primario, lasciando le altre lettere orfane di capofila.
Quando ebbe finito, rosso in viso e con un fiatone degno di un buon tempo alla maratona di Verruschio, lo Zufolotti si girò verso il professore e tutti gli altri presenti nello studio. Gli occhi erano tornati vividi, l’espressione attenta, e la bocca finalmente allargata in un sorriso. A quella apertura di credito, il pubblico dei codazzi presente si produsse in un applauso scrosciante, che esprimeva allo stesso tempo ammirazione per il primario che aveva individuato il caso e risolto brillantemente la questione, gioia solidale per il paziente che dava segni di ripresa e sollievo nel vedere superato un problema che pareva misterioso quanto strambo, un problema che inquietava il loro inconscio prima ancora che le loro lucide menti di aspiranti dottori.
In breve lo Zufolotti fu congedato dall’ospedale, con grande soddisfazione del Marinetti che in tutto quel tempo non era nemmeno riuscito ad avvisare in ufficio che avrebbe fatto tardi. Ma da quel giorno lo Zufolotti venne visto sempre, sempre, con un piccolo martelletto per riflessi nel taschino.
Per sicurezza. 

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