giovedì 2 febbraio 2017

MEMORIE PARIGINE (II) di Narciso Fenice Ramparti

Dopo due settimane di irreprensibile soggiorno nella capitale francese, il prof. Giuseppi di Storia dell'Arte compromise per sempre il suo quinquennale magistero con un'uscita raggelante: 'Stasera vi imparo a scopare, vi porto a puttane!'.

Plot twist. L'allora davvero sensazionale annuncio, che ancora mi rimbomba nelle tempie, venne dato dal vispo sessantenne in un momento di stucchevole confidenza alcolica ad un selezionatissimo uditorio: il sottoscritto e altri sei ragazzi oggi affermati ai massimi livelli, i cui nomi non riporto per discrezione.

Il pomeriggio di quel venerdì 13 era stato lasciato libero dopo una sfiancante visita a Les Invalides e al mausoleo di Napoleone. Verso le 16, tornando da una passeggiata postprandiale intorno a place de Clichy, incrociammo nei corridoi dell'albergo il Giuseppi già più che alticcio; inveiva contro gli altri docenti che accompagnavano la gita. Probabilmente sull'orlo di una crisi depressiva, si era impallato in un terribile loop, ripetendo per quattordici volte: 'Perché non è possibile! Me ne vado!', sempre facendo la mossa di andarsene e poi tornando indietro, in un'interminabile sequenza dal sapore antico. Interrotto provvidamente il suo ormai insostenibile crescendo, ci adoperammo ad allontanarlo dai mortificatissimi colleghi, spostandoci nella hall e infine assecondando la sua proposta di uscire per andare a bere qualcosa.

Rinfrancato dal nostro conforto e dall'aria profumata del marzo parigino, il professore ci condusse con ritrovata sicurezza in un vicino bistrot, incassato fra i vicoli a ridosso di rue Legendre. Un'educazione claustrale mi aveva fino ad allora consacrato alla sobrietà, e bastò un singolo shottino di nonsocosa per catapultarmi nel nirvana. Ricordo ancora distintamente la sensazione di ovattamento progressivo mentre  parlavamo seduti al tavolino di un ambiente gradevole e caratteristico, tappezzato a tinte calde. Mi stavo godendo Parigi nel suo più inesprimibile Sublime, quando la conversazione – che non seguivo, limitandomi a ritmiche espressioni d'approvazione – tornò a chiamare la mia attenzione. Viportoaputtane! Viportoaputtane!

Stasera vi porto a puttane. Non era uno dei miei soliti sogni che impastavano cartoni animati e traumi scolastici, anche se lo sembrava. Perso nei miei film, non avevo presentito l'imminenza dialettica di quella memorabile climax: un aprosdòketon frastornante, per capirci come al bar, di cui avevo perso le nodali premesse.

Ma ormai era stato detto. Stasera vi porto a puttane, e tirarsi indietro non parve d'acchito un'opzione praticabile. Destinazione naturale il famosissimo quartiere a luci rosse di Pigalle. Impossibile spiegare a parole cosa potesse sembrarmi a quel tempo una notte in quel leggendario luogo di perdizione: una cosa indescrivibile, di molto al di là di ogni mio orizzonte. Non ero il solo ad aver sobbalzato: a parte un paio di esaltati senzadìo che reagirono con scomposto entusiasmo, noialtri di ancestrale retaggio parrocchiale, nel migliore dei casi fidanzati da eoni con cessi inespugnabili, restammo esterrefatti.

Trainati dai più “bombardini” ci lasciammo però convincere, chi dilaniato dalla curiosità, chi per indolenza, e chi, da osceno puritano della domenica, per non contrariare l'autorità docenziale. In una sorta di patetica distorsione dell'Attimo Fuggente, officiammo l'istituzione della nostra risibile Setta dei Poeti Estinti: proclamato il Giuseppi maitre de plaisir e datici appuntamento per la mezzanotte, rientrammo in albergo.

La sera stessa, mentre la gente per bene dormiva, sfilammo furtivi per le avenues e i boulevards fino a place Pigalle. Starnazzando in un ingiustificato grammelot francofono e millantando à la Calboni una navigata esperienza dei diversi locali del quartiere, il prof. impose una spedita rassegna di vari squallidi spogliarelli in altrettante discutibili venues, che mi turbarono per la dicotomia fra performers, rigorosamente obese o anoressiche.

Arrivammo alla resa dei conti all'improvviso: appena entrati in un locale più esplicitamente sciantoso, il Giuseppi sbottò in un italianissimo 'Questi ragazzi vogliono scopare!' facendoci scomparire. Di più, e letteralmente, tale formulazione, suonò come una terribile squilla per i più titubanti. Da qui in poi la storia dovrebbe avere più narrazioni parallele, in quanto ci disperdemmo subitaneamente con esiti diversi. Io e altri due fidi sfigati tornammo in strada con un doppio carpiato mortale, in lacrime all'idea di venir violentati. Sottrattomi all'imponderabile carnaio (di cui esistono resoconti secretati del tutto sconcertanti che, ancora, mi astengo dal riportare), camminavo nella notte. Insensibile ai rimpianti ma sbomballato, rispondevo ai viandanti notturni che mi salutavano complici: giunto in albergo per primo, fondai una band, avviando un regno felice nel settore della ristorazione.

Concludo il mio contributo con un decontestuale MESSAGGIO ALLA COMUNITÀ MUSICALE: avanti colla prossima canzone, perdìnci, a calcinculo verso l'eccellenza! Rimini rimini siamo noi, però rimini daccheccosa, chissà cos'é.

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