Ci pensavo un giorno compulsando a scopi
autobiografici il Tuttocittà di Firenze alla ricerca delle mie origini.
Qualcuno dirà che avrei dovuto prima verificare di essere uno scrittore. Lo
ritengo un dettaglio. Trascurando il versante paterno che affonda le ataviche
ramificazioni nel tavoliere pugliese transitando per Pistoia e Piazza Gavinana,
potei verificare come l’esistenza della famiglia di mia madre per qualche
generazione si fosse consumata in pochi quadrati di una delle mappe, in quella
zona compresa tra le Due Strade e l’inizio di via Romana, l’anticamera
dell’Oltrarno. Vita e lavoro, se è vero che mio nonno possedeva una segheria di
legname in via S.Maria. L’unica nota esotica era data dalla nonna, originaria
delle Cascine del Riccio, agli inizi del Novecento ancora periferia imperiale;
pantalonaia, terzista avremmo detto oggi, che mise al mondo due figlie sarte,
mia mamma appunto e mia zia che sa fare tuttora gli “occhielli” per le asole
dei bottoni. Nell'ansia nominalistica che preoccupava all'inizio del Novecento
le famiglie numerose la nonna era stata battezzata Fidalma, il che doveva
certificare anche della stabilita della sua anima. Tutti in quel tratto di già
Romana la conoscevano però come Rina. Anche questo, però, è un dettaglio.
Verificai inoltre come le mie radici fossero
cresciute in quel punto mediano della salita di S.Gaggio ove da tempo immemore
dimoro, e come gran parte della mia vita si fosse consumata nello scivolare giù
per la discesa fino ad attraversare l’Oltrarno come un coltello percorre il
burro, per dirigermi verso svariati dove. Non era abbastanza per fare di me un
Jonathan Safran-Foer, ma era pur sempre qualcosa.
Sta a Porta Romana, l’Oltrarno, un po’ come
Genova sta ai territori in fondo alla campagna secondo Paolo Conte: è un’idea
come un’altra. Lo si pregusta caracollando giù per via Senese dove prima c’era
gran traffico di pellegrini che andavano e tornavano da Roma abbeverando i loro
cavalli alle fonticine che si trovano all’angolo di Via S.Ilario a
Colombaia. Giù verso Porta Romana, dove prima c’era una vita di negozi
(l’ortolano, il fornaio, persino il vinaio quello con la stoppa ai fiaschi e il
carbonaio poi affossato dall’imperare del metano) ora ritiratasi addosso alla
piazza, come volesse proteggersi all’ombra del discusso statuone piazzato nel
bel mezzo della rotonda. E giù ancora sotto la porta, accanto al buffo affresco
sulla casa che divide via de’Serragli da via Romana, verso l’Arno che divide un
mondo dall'altro. Fatta mille volte, questa discesa. Da piccolo Porta Romana
erano le Colonne d’Ercole, un limite raramente superabile camminando a piedi.
Veduta gente andare e venire, negozi chiudere e aprire di nuovo. Percorsa in
motorino, in vespa, in autobus. Quel tragitto era sempre l’anticamera di
qualcosa: un’interrogazione, un compito in classe, una partenza, un amoroso
convegno. Fino al Ponte S.Trinita si era protetti, stretti tra le mura e il
fiume. Quello era ancora il territorio delle tue radici, che non pretendeva da
te impegni o risultati. Ti lasciava oziare nel bar in Piazza S.Felice, o
drogarti di coccoli terribilmente salati nella friggitoria vicino agli
Artigianelli. O notare l’incongruenza di un rivenditore di ingranaggi in mezzo
agli antiquari di via Maggio. Una volta passato il fiume, invece, il mondo
chiedeva il conto, quale che esso fosse.
I più tristi attraversamenti di questo
territorio risalgono al periodo delle scuole medie, della prima e seconda in
particolare, la triste propaggine degli anni settanta che furono l’ottanta e
l’ottantuno. Anni di morti, terremoti, bombe e aerei che cascano senza
perché. Siccome l’orrendo non si limita
mai ai grandi fatti ma pervade anche le minuzie individuali, avevano abolito
per volere di Andreotti la festività dell’Epifania cosicché una delle poche
risorse di pace e rilassamento, le vacanze di Natale, si erano drammaticamente
accorciate. Imbacuccato in quegli inverni montavo sul 36 che allora come ora
ferma davanti a casa per scendere verso la scuola, situata in quello che oggi è
il Museo Alinari in Piazza S.Maria Novella. L'11 no, non andava bene perché si
doveva scendere e cambiare, e questo avrebbe interrotto il carattere insieme
cinematografico e salvifico di quel viaggio. Vedevo dai finestrini appannati
l’Oltrarno scorrere attraverso via Romana e via Maggio. Era ancora la terra
delle radici, dove non pensare alle cose brutte: le espressioni con le graffe,
il tedesco, l’analisi logica, le applicazioni tecniche, l'ascesa di Canale 5,
la nascente inquietudine erotica causata dall'improvvisa apparizione delle
tettute donnine di Lupin III nell'universo dei cartoni animati. Già
l’avvistamento del simulacro di S.Spirito occhieggiato da una strada laterale
faceva crescere il senso del pericolo, come quando il portello del mezzo da
sbarco sta per aprirsi davanti all’elmetto del povero fantaccino che attende il
piombo nemico. Il 3 gennaio dell’ottantuno si tornava a scuola dopo le vacanze
di Natale. Seconda media, freddo grigio e pesante. Tristemente imbacuccato alla
fermata attendevo l’ennesimo 36. Pregavo con i pugni serrati tra i fari ancora
accesi delle macchine che nevicasse, e tutto fosse sepolto. Come capita spesso,
nessuno ascoltò. E feci ancora un viaggio attraverso il cuore dell’Oltrarno, la
terra amica delle radici, prima di arrivare là dove c’è sempre qualcuno che ti
chiede conto, e vuole sapere, e da te vuole ottenere qualcosa. Alla sera
l'Italia fu sconfitta dall'Uruguay nella partita d'esordio del Mundialito. Gli
uruguagi avevano pagato l'arbitro, e bene.
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