martedì 1 novembre 2016

INTERI E NO di Sabrina Carollo

Stava in piedi davanti allo specchio del bagno, senza il coraggio di aprire la bocca. Le lacrime le avevano impiastricciato le guance, mescolandosi alla terra e al sangue. Una maschera orribile, una bambola rotta. Stringeva ancora le mani al petto, la destra chiusa in un pugno, la sinistra stretta attorno all’altra. Cominciò ad aprirle lentamente, come petali di un bocciolo che si stiracchiano pigramente al sole. In mezzo al palmo sporco e leggermente graffiato, il frammento. Alzò allora nuovamente lo sguardo allo specchio. Respirò profondamente e aprì la bocca. Contrasse i muscoli facciali sollevando il labbro superiore, come in una smorfia. Eccola lì, la finestrella solitaria. L’incisivo superiore era spezzato nettamente in due: la parte sopra, ridotta a una striscia chiara che si affacciava timidamente dalla gengiva pallida, come il bordo delle lenzuola di un albergo a due stelle. Quella sotto giaceva abbandonata nella sua mano, pezzo di puzzle avanzato e inutile.

Cominciò a fare facce mostruose. Tirandosi il naso, incrociando gli occhi, esorcizzava il suo scorno per quel dente solitario, abbandonato sul bordo del lavandino mentre la bocca orfana si piegava in mille orribili angolature.

Era inciampata in una radice di merda. Avrebbe volentieri dato fuoco a tutti gli alberi del pianeta, a ripensarci. Una radice di merda e ZA! Era finita a faccia in giù, una mano ancora in tasca. Riflessi zero. Solo una fitta alla bocca, e poi quel pezzo di dente saltato via come una biglia. In ginocchio, un palmo sanguinante e graffiato per aver tentato di attutire la caduta, l’altra mano (inutile stupida) finalmente estratta che cercava tra la terra il frammento mancante, era riuscita a ribeccarlo tra i ciuffi d’erba e l’asfalto sbeccato. Con il dente in mano aveva pianto, mentre nessuno la vedeva, quel suo destino fantozziano, e tutta la rabbia di non riuscire a combinare niente di buono.

Ora, davanti allo specchio, provava a riattaccare il dente tenendolo con la punta delle dita e avvicinandolo all’origine. Avrebbe potuto fare una specie di kintsugi, con una bella linea d’oro a coprire la cucitura. Magari avrebbe lanciato una moda.

Chissà se quel mezzo dentino valeva qualcosa, per la fatina. Avrebbe potuto metterlo sotto il bicchiere e sperare di trovarci una monetina, il giorno successivo.

Si guardò con aria scoraggiata. Scosse la testa.

Poteva mangiare del cioccolato consolatorio ora? O sarebbe stata un’azione devastante? La carie si sarebbe formata alla velocità della luce, ora che il dente era rotto? Avrebbe dovuto considerarla una ferita aperta, da cui ogni tipo di maledetta aggressioni avrebbe trovato più facilmente una strada? Una specie di fessura nel recinto, un vulnus, la crepa che avrebbe fatto crollare tutta la costruzione.

Prese lo spazzolino da denti e ne appoggiò l’estremità dell’impugnatura al centro dello specchio. Poi afferrò la spazzola e con un colpo secco e violento la usò alla maniera di un martello contro lo spazzolino, come a inchiodarlo nello specchio. Il vetro non esplose ma si crettò pacatamente, fino a raggiungere le estremità della cornice. Tanti minuscoli frammenti proiettavano ora un’immagine caleidoscopica dell’interno del bagno. La sua figura era rifranta in milioni di pezzetti irregolari. I suoi occhi erano diventati almeno trenta, le orecchie una quindicina, sparse in modo disorganizzato a seconda di come si muoveva. Più braccia della dea Kalì, nasi in abbondanza, dalle forme irregolari e inafferrabili. Aveva davanti una persona sbocconcellata, di cui sarebbe stato impossibile definire il contorno esatto. Ecco, ora la finestra nella sua bocca non si distingueva più, sostituita da mille e mille irregolarità nella percezione della propria immagine.

Appoggiò il pezzo di dente proprio al centro della deflagrazione dello specchio e lo fissò con lo scotch.

Poi andò a telefonare al dentista.

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