martedì 1 novembre 2016

FUMO NELL'ANIMA di Mauro Monni

Ricontrollo ancora una volta l’sms con l’indirizzo del locale: il quartiere non lo conosco e lo squallore che emana ne spiega il motivo. Accidenti a me e a quando ho deciso di farle questa sorpresa. Spesso nei week end pare si esibisce con un gruppo musicale e ciò le fa dimenticare di essere ogni santo giorno una commessa di supermercato periferico. “Florida Club” leggo tra i resti di un’insegna con tanto di palma stilizzata che di tropicale ha davvero poco e che ha visto sicuramente tempi migliori.

Mi fermo, trovo posto abbastanza facilmente vista l’ora tarda, e camminando verso l’ingresso vedo la sua Smart bianca parcheggiata non lontano da dove ho lasciato la mia: non so decifrare il mio stato d’animo e più diminuisce la distanza dall’ingresso (portone adatto ad un magazzino, non a un locale) più cresce in me la voglia di andarmene il più in fretta possibile, facendo finta di niente. Ma tiro avanti: imbarazzatissimo spingo la porta e mi ritrovo al caldo del locale. Musica di sottofondo, risate che arrivano dal basso; c’è una scala a chiocciola abbastanza buia e la affronto con le gambe diventate molli. Adesso, poco alla volta, la luce prende forma e l’odore di muffa e di chiuso lascia il posto ad uno slargo utilizzato come guardaroba. Una signora di mezz’età con una bottiglia di Ceres in mano mi fa cenno di passare. A quanto pare a quest’ora neanche chiedono più un biglietto d’ingresso. Ora la musica è più nitida e chiara e infatti riconosco la sua voce. Romina è giovane, Romina è bella. Romina forse è una troia. C’è il bar ancora aperto; un piccolo capannello di persone chiaccherano col bicchiere in mano. Sì è vero: questo governo fa schifo. Ordino un gin tonic più per avere la mano occupata e darmi così uno pseudo contegno che per la voglia di bere, anche se stordirmi un po’ a questo punto male non farebbe. Ma sai quanto alcol ci vorrebbe? Il tizio dietro al bancone, camicia unta e mani da falegname, mi scruta senza dire niente: è incuriosito perché non mi ha mai visto e forse sta valutando il fatto se possa essere un poliziotto in borghese o un agente della Digos: i suoi occhi fintamente distratti danno davvero fastidio. Butto giù velocemente l’ultimo sorso, pago e gli volgo le spalle.

Poi la vedo: bellissima, non c’è che dire.

Potrebbe essere una scena da noir francese: cantante ammaliatrice e pubblico in ossequioso silenzio. Cliché visto e rivisto. Ma affascinante, indubbiamente. Percepisco i loro sguardi spermatozoici che si stanno godendo le fantasie più indicibili. Quando mi metto a sedere su un divano laterale lei mi vede e, quasi impercettibilmente, si blocca. Sta cantando un pezzo in inglese che non conosco ma non è importante: camicetta aperta che fa intravedere la coppa del reggiseno, minigonna nera molto più vicina all’inguine che al ginocchio, calze bicolori che fasciano quelle cosce che conosco così bene, tacco dieci… insomma: bellissima, da colpo al cuore! E lei lo sa bene. E le piace sentirsi onnipotente, le piace piacere: lo so, lo immagino. Il gruppo sul palco è di una tristezza infinita: il bassista è alto e magro come neppure io a diciotto anni; la tastierista è Susy, amica sveglia di Romina, carina ma trasparente di fianco a lei. Alla chitarra (suonata da cani), c’è un tizio con baffi da tricheco anni ‘70: pantaloni di pelle e maglietta attillata inneggiante un tour europeo dei Genesis di qualche decennio fa; è palese il fatto che al momento dell’acquisto la sua pancia non avesse ancora conosciuto l’attuale circonferenza. Il tricheco non fa niente per nascondere lo sguardo fisso sul culo di Romina; si gode lo spettacolo quell’uomo ridicolo. Più indietro il batterista neanche si vede, nascosto com’è da un incrocio di luci piazzate male. In un contesto così squallido mi ritrovo, da vero cretino, a scoprirmi geloso per questa palese esposizione di una cosa che, stupidamente, ho immaginato di mia proprietà. Lei canta e fa finta di ignorarmi; noto quando lancia occhiate furtive ma appena giro lo sguardo lei fa altrettanto: non le basta aver vinto… l’avermi di fronte, il fatto che abbia ceduto alle sue richieste e che sia lì… no, questo è il suo mondo e lei comanda. E vuole dominare, farmi capire che lei è la regina e io uno spettatore come gli altri: che mi goda lo spettacolo oppure, se ho da lamentarmi, la porta si sa dov’è. Io son qua, e aspetto la sentenza fingendo di controllare un cellulare ovviamente muto visto che sono le tre di notte. Susy mi ha riconosciuto e sorride: sa di noi e forse un po’ invidia le nostre scorribande. Torno al bar per un secondo Gin Tonic. Il tizio mi chiede sorridendo se sono un amico di Romina e questo mi mette un’angoscia indescrivibile: è solo curiosità oppure qua sono abituati a trovarsi di fronte suoi amici impacciati? Con un minimo di pragmatismo e logica non ci vuole molto a ammettere a se stessi quanto sia ovvio che una donna così abbia la fila di uomini disposti alle peggio cose pur di averla, ma come si può parlare, appunto, di logica quando siamo coinvolti in prima persona? Poi è stata lei a cercare me, no? Io sono l’uomo alfa conosciuto, lei una cassiera. Io un professionista e lei una delle tante.

No. Io sono un coglione e lei una che mi tiene per le palle. Tutto il resto è fuffa.

“Sì, sono un amico di Romina” gli rispondo, “sa mica più o meno verso che ora finiranno?”

“Spero presto perché per stasera mi son già rotto le palle. Quattro euro”.

Pago nuovamente e me ne ritorno al divano, cellulare in una mano e bicchiere nell’altra. Romina ha una voce molto bella e pulita, non conosco neppure quest’ultima canzone.

Ci sono due tizi che si fermano sotto il palco per salutare lei e Susy e la confidenza è palese.

Ma che ci sono venuto a fare qua? A vedere questa donna giovane e bella che ogni tanto ti fai che usa il suo corpo come arma di distruzione di massa? Masochismo puro. Prenditi il bello quando capita e smetti di farti film sull’esclusività della relazione. Hai creduto di poter dominare e ti scopri dominato. Punto. Non puoi essere geloso, non ora, non qui!

Decido di andarmene, finisco il bicchiere e le faccio un cenno a distanza per salutarla. Fanculo a me, voglio scappare da queste luci al neon pallide e tristi. Basta, sono deciso. Macchè, sono manovrabile come tutti, visto che lei mi indica con la mano di aspettarla. Cinque minuti, mi fa cenno. Almeno mi sorride; forse ho pure intravisto un accenno di complicità, chissà. Fatto sta che non vado via: per non uscirne umiliato su tutto il fronte cerco di farle capire che esco per fumare e fare una telefonata. Sì, alle tre di notte, come no. Ripasso dal guardaroba, la donna di prima non c’è più e risalgo la scala a chiocciola per arrivare a respirare finalmente aria nuova. Il gelo della notte è una mazzata, le macchine sono sempre meno e sento arrivare profumo di spinello consumato nei paraggi. Sigaretta in bocca, mani in tasca: un James Dean senza poesia. Un affresco agghiacciante.

Poi mi raggiunge. “Ciao, che sorpresa m’hai fatto!” mi da’ un bacio sulla guancia. Il profumo della sua pelle lo conosco molto bene, mi scatena di tutto.

“Ti avevo promesso che una volta sarei venuto e l’ho fatto. Hai una voce bellissima, complimenti”. Risulto finto pure a me stesso.

Lei ride, quando a una donna fai un complimento non parti in svantaggio.

“Eh, come no: mi piace e mi diverto a cantare, tutto qua”.

“Eri molto bella su quel palco. Splendevi”.

“Apparenza…”

Vorrei dirle che quella minigonna gliela strapperei a morsi solo me lo chiedesse, e come me l’hanno pensato tutti gli uomini di stasera, ciechi compresi. Vorrei salisse in macchina mia per poterla prendere così, ancora nei panni della soubrette di periferia che tanto le piace. Lei sa di dominare il contesto e non fa sconti. Pure io lo so, ma non ho armi stavolta. Sono io il professionista e lei la cassiera, io l’uomo conosciuto e lei una delle tante. Sono io il condannato in attesa di giudizio.

“Perché non mi hai baciato in bocca come sempre?”

Sorride, nessuna risposta.

Sto per riprendere a parlare quando ecco apparire Susy.

“Ro sei qui? Ah, ciao: come stai? Che piacere…”

“Ciao Susy, tutto bene? Complimenti: siete bravi. E questo vestito ti sta divinamente”.

“Scemo”. Poi rivolta a Romina: “Che fai, vieni con noi? Andiamo a fare mattina in città tutti assieme. Andrea dice che sono arrivati dei suoi amici da Londra che fanno morire. Vieni?”

E poi si ghiaccia il sangue.

“Dammi due minuti che scendo” sento rispondere.

La guardo.

Mi guarda.

“Ti scoccia che vada con loro vero?”.

Vorrei dirle che sono qua apposta per lei, ricordarle di ieri pomeriggio quando s’è fatta prendere ancora vestita, i suoi sospiri infiniti. Vorrei dirle che in giro così ci vanno solo le zoccole e che gli amici inglesi saranno già brilli da un pezzo e per loro sarà automatico saltarle addosso come carne da macello. Vorrei dirle che gli inglesi puzzano e da ubriachi sono maleducati e pericolosi, che guidano contromano, che il Principe Carlo ha dei denti orrendi. Si lavano poco e puzzano, sono tristi e inoltre non sanno cosa siano i centimetri; dirle che le Falkland dovrebbero essere argentine e chiamarsi Malvinas. Soprattutto vorrei dirle quanto presuntuoso sia stato il pensare che il mio venire qua potesse essere uno splendido regalo ai suoi occhi.

“Tranquilla, figurati: è la tua serata. Per me è già troppo tardi, meglio torni a casa”.

Sorride, mi bacia in bocca (stavolta, la stronza) e promette di chiamarmi domani. Rientra nel locale, sento il rumore dei tacchi sulla scala che si allontana sempre più e a me non rimane che tornarmene davvero sui miei passi.

Solo, infreddolito e deluso.

Sì, devo tornarmene a casa.

Spira di fumo scappano dal finestrino leggermente abbassato della macchina andandosi a scontrare col freddo autunnale della notte; lo scalare delle marce è l’unico rumore che rompe i silenzi di questa scura periferia dimenticata dal mondo e dagli uomini.

L’ultimo riflesso luminoso è quello di un’insegna con tanto di palma stilizzata che ha visto tempi migliori.

 

 

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