Mi fermo, trovo posto
abbastanza facilmente vista l’ora tarda, e camminando verso l’ingresso vedo la
sua Smart bianca parcheggiata non lontano da dove ho lasciato la mia: non so
decifrare il mio stato d’animo e più diminuisce la distanza dall’ingresso
(portone adatto ad un magazzino, non a un locale) più cresce in me la voglia di
andarmene il più in fretta possibile, facendo finta di niente. Ma tiro avanti:
imbarazzatissimo spingo la porta e mi ritrovo al caldo del locale. Musica di
sottofondo, risate che arrivano dal basso; c’è una scala a chiocciola
abbastanza buia e la affronto con le gambe diventate molli. Adesso, poco alla
volta, la luce prende forma e l’odore di muffa e di chiuso lascia il posto ad
uno slargo utilizzato come guardaroba. Una signora di mezz’età con una
bottiglia di Ceres in mano mi fa cenno di passare. A quanto pare a quest’ora
neanche chiedono più un biglietto d’ingresso. Ora la musica è più nitida e
chiara e infatti riconosco la sua voce. Romina è giovane, Romina è bella. Romina
forse è una troia. C’è il bar ancora aperto; un piccolo capannello di persone
chiaccherano col bicchiere in mano. Sì è vero: questo governo fa schifo. Ordino
un gin tonic più per avere la mano occupata e darmi così uno pseudo contegno
che per la voglia di bere, anche se stordirmi un po’ a questo punto male non
farebbe. Ma sai quanto alcol ci vorrebbe? Il tizio dietro al bancone, camicia
unta e mani da falegname, mi scruta senza dire niente: è incuriosito perché non
mi ha mai visto e forse sta valutando il fatto se possa essere un poliziotto in
borghese o un agente della Digos: i suoi occhi fintamente distratti danno
davvero fastidio. Butto giù velocemente l’ultimo sorso, pago e gli volgo le
spalle.
Poi la vedo: bellissima,
non c’è che dire.
Potrebbe essere una
scena da noir francese: cantante ammaliatrice e pubblico in ossequioso silenzio.
Cliché visto e rivisto. Ma affascinante, indubbiamente. Percepisco i loro
sguardi spermatozoici che si stanno godendo le fantasie più indicibili. Quando
mi metto a sedere su un divano laterale lei mi vede e, quasi impercettibilmente,
si blocca. Sta cantando un pezzo in inglese che non conosco ma non è
importante: camicetta aperta che fa intravedere la coppa del reggiseno,
minigonna nera molto più vicina all’inguine che al ginocchio, calze bicolori
che fasciano quelle cosce che conosco così bene, tacco dieci… insomma:
bellissima, da colpo al cuore! E lei lo sa bene. E le piace sentirsi
onnipotente, le piace piacere: lo so, lo immagino. Il gruppo sul palco è di una
tristezza infinita: il bassista è alto e magro come neppure io a diciotto anni;
la tastierista è Susy, amica sveglia di Romina, carina ma trasparente di fianco
a lei. Alla chitarra (suonata da cani), c’è un tizio con baffi da tricheco anni
‘70: pantaloni di pelle e maglietta attillata inneggiante un tour europeo dei
Genesis di qualche decennio fa; è palese il fatto che al momento dell’acquisto
la sua pancia non avesse ancora conosciuto l’attuale circonferenza. Il tricheco
non fa niente per nascondere lo sguardo fisso sul culo di Romina; si gode lo
spettacolo quell’uomo ridicolo. Più indietro il batterista neanche si vede,
nascosto com’è da un incrocio di luci piazzate male. In un contesto così
squallido mi ritrovo, da vero cretino, a scoprirmi geloso per questa palese esposizione
di una cosa che, stupidamente, ho immaginato di mia proprietà. Lei canta e fa
finta di ignorarmi; noto quando lancia occhiate furtive ma appena giro lo
sguardo lei fa altrettanto: non le basta aver vinto… l’avermi di fronte, il
fatto che abbia ceduto alle sue richieste e che sia lì… no, questo è il suo
mondo e lei comanda. E vuole dominare, farmi capire che lei è la regina e io
uno spettatore come gli altri: che mi goda lo spettacolo oppure, se ho da
lamentarmi, la porta si sa dov’è. Io son qua, e aspetto la sentenza fingendo di
controllare un cellulare ovviamente muto visto che sono le tre di notte. Susy
mi ha riconosciuto e sorride: sa di noi e forse un po’ invidia le nostre
scorribande. Torno al bar per un secondo Gin Tonic. Il tizio mi chiede
sorridendo se sono un amico di Romina e questo mi mette un’angoscia
indescrivibile: è solo curiosità oppure qua sono abituati a trovarsi di fronte
suoi amici impacciati? Con un minimo di pragmatismo e logica non ci vuole molto
a ammettere a se stessi quanto sia ovvio che una donna così abbia la fila di
uomini disposti alle peggio cose pur di averla, ma come si può parlare, appunto,
di logica quando siamo coinvolti in prima persona? Poi è stata lei a cercare
me, no? Io sono l’uomo alfa conosciuto, lei una cassiera. Io un professionista
e lei una delle tante.
No. Io sono un coglione
e lei una che mi tiene per le palle. Tutto il resto è fuffa.
“Sì, sono un amico di
Romina” gli rispondo, “sa mica più o meno verso che ora finiranno?”
“Spero presto perché per
stasera mi son già rotto le palle. Quattro euro”.
Pago nuovamente e me ne
ritorno al divano, cellulare in una mano e bicchiere nell’altra. Romina ha una
voce molto bella e pulita, non conosco neppure quest’ultima canzone.
Ci sono due tizi che si
fermano sotto il palco per salutare lei e Susy e la confidenza è palese.
Ma che ci sono venuto a
fare qua? A vedere questa donna giovane e bella che ogni tanto ti fai che usa
il suo corpo come arma di distruzione di massa? Masochismo puro. Prenditi il
bello quando capita e smetti di farti film sull’esclusività della relazione.
Hai creduto di poter dominare e ti scopri dominato. Punto. Non puoi essere
geloso, non ora, non qui!
Decido di andarmene,
finisco il bicchiere e le faccio un cenno a distanza per salutarla. Fanculo a
me, voglio scappare da queste luci al neon pallide e tristi. Basta, sono
deciso. Macchè, sono manovrabile come tutti, visto che lei mi indica con la
mano di aspettarla. Cinque minuti, mi fa cenno. Almeno mi sorride; forse ho pure
intravisto un accenno di complicità, chissà. Fatto sta che non vado via: per
non uscirne umiliato su tutto il fronte cerco di farle capire che esco per
fumare e fare una telefonata. Sì, alle tre di notte, come no. Ripasso dal
guardaroba, la donna di prima non c’è più e risalgo la scala a chiocciola per
arrivare a respirare finalmente aria nuova. Il gelo della notte è una mazzata,
le macchine sono sempre meno e sento arrivare profumo di spinello consumato nei
paraggi. Sigaretta in bocca, mani in tasca: un James Dean senza poesia. Un
affresco agghiacciante.
Poi mi raggiunge. “Ciao,
che sorpresa m’hai fatto!” mi da’ un bacio sulla guancia. Il profumo della sua
pelle lo conosco molto bene, mi scatena di tutto.
“Ti avevo promesso che
una volta sarei venuto e l’ho fatto. Hai una voce bellissima, complimenti”.
Risulto finto pure a me stesso.
Lei ride, quando a una
donna fai un complimento non parti in svantaggio.
“Eh, come no: mi piace e
mi diverto a cantare, tutto qua”.
“Eri molto bella su quel
palco. Splendevi”.
“Apparenza…”
Vorrei dirle che quella
minigonna gliela strapperei a morsi solo me lo chiedesse, e come me l’hanno
pensato tutti gli uomini di stasera, ciechi compresi. Vorrei salisse in
macchina mia per poterla prendere così, ancora nei panni della soubrette di
periferia che tanto le piace. Lei sa di dominare il contesto e non fa sconti.
Pure io lo so, ma non ho armi stavolta. Sono io il professionista e lei la
cassiera, io l’uomo conosciuto e lei una delle tante. Sono io il condannato in
attesa di giudizio.
“Perché non mi hai
baciato in bocca come sempre?”
Sorride, nessuna
risposta.
Sto per riprendere a
parlare quando ecco apparire Susy.
“Ro sei qui? Ah, ciao: come
stai? Che piacere…”
“Ciao Susy, tutto bene?
Complimenti: siete bravi. E questo vestito ti sta divinamente”.
“Scemo”. Poi rivolta a
Romina: “Che fai, vieni con noi? Andiamo a fare mattina in città tutti assieme.
Andrea dice che sono arrivati dei suoi amici da Londra che fanno morire. Vieni?”
E poi si ghiaccia il
sangue.
“Dammi due minuti che
scendo” sento rispondere.
La guardo.
Mi guarda.
“Ti scoccia che vada con
loro vero?”.
Vorrei dirle che sono
qua apposta per lei, ricordarle di ieri pomeriggio quando s’è fatta prendere
ancora vestita, i suoi sospiri infiniti. Vorrei dirle che in giro così ci vanno
solo le zoccole e che gli amici inglesi saranno già brilli da un pezzo e per
loro sarà automatico saltarle addosso come carne da macello. Vorrei dirle che gli
inglesi puzzano e da ubriachi sono maleducati e pericolosi, che guidano
contromano, che il Principe Carlo ha dei denti orrendi. Si lavano poco e
puzzano, sono tristi e inoltre non sanno cosa siano i centimetri; dirle che le
Falkland dovrebbero essere argentine e chiamarsi Malvinas. Soprattutto vorrei
dirle quanto presuntuoso sia stato il pensare che il mio venire qua potesse
essere uno splendido regalo ai suoi occhi.
“Tranquilla, figurati: è
la tua serata. Per me è già troppo tardi, meglio torni a casa”.
Sorride, mi bacia in
bocca (stavolta, la stronza) e promette di chiamarmi domani. Rientra nel
locale, sento il rumore dei tacchi sulla scala che si allontana sempre più e a
me non rimane che tornarmene davvero sui miei passi.
Solo, infreddolito e
deluso.
Sì, devo tornarmene a
casa.
Spira di fumo scappano
dal finestrino leggermente abbassato della macchina andandosi a scontrare col
freddo autunnale della notte; lo scalare delle marce è l’unico rumore che rompe
i silenzi di questa scura periferia dimenticata dal mondo e dagli uomini.
L’ultimo riflesso
luminoso è quello di un’insegna con tanto di palma stilizzata che ha visto
tempi migliori.
Nessun commento:
Posta un commento