Così
vai dal dentista, ti fa una panoramica e pronuncia la frase “E' il dente del
giudizio, è cresciuto in orizzontale, dobbiamo operare”.
Una
parte molto piccola del tuo organismo si sta ribellando, infettando ciò che ha
intorno. Un frammento di osso, residuo di un arcaico passato di predatori
preistorici, che cresce, incongruo, in un corpo evoluto. Lui, il dente, ha
delle pretese: vuole il suo spazio vitale. La lotta è impari, se non lo togli
lui vincerà e il dolore sarà insopportabile. Perciò non hai alternative: devi
accettare il contratto del dentista.
La
poltrona è apparentemente comoda, ma tu sai che l'impressione è ingannevole,
sai che quella poltrona accoglierà la tua sofferenza. Il dentista usa una
siringa con un ago non abbastanza sottile per sparare l'oblio anestetico nella
parte molle della bocca: nel giro di pochi secondi non hai più sensibilità, la
guancia non c'è più, la gengiva è intorpidita, le labbra non sono tue. Non sai
neanche se hai la bocca aperta o chiusa.
Concentrarsi
sul respiro dunque. Ma intorno a te ci sono esseri alieni, con camice e mascherina,
guanti e bisturi, un odore acidulo di medicamenti. Il taglio è un attimo. Ma il
bello deve ancora venire.
Il
dentista lavora per un'ora, un tempo infinito, si ferma e tu pensi che abbia
terminato. Ma invece ti dice “Il dente non vuole venire via”. Quel frammento di
origine della specie è attaccato con caparbietà e non si fa tirare via. Passa
un'altra ora, il dentista suda, tira con tutta la forza che ha con una pinza
che non riesci a vedere bene, tira e tira come se dovesse estirpare la radice di
una quercia millenaria. Tu continui a respirare, cerchi di pensare ad altro, ma
il rumore incessante della piccola fresa, l'aspiratore, il divaricatore che sta
slabbrando la guancia non danno tregua, ti ritrovi con le mani aggrappate alla
poltrona, le nocche bianche per lo sforzo, gli occhi dilatati per la paura e lo
sfinimento.
E
all'improvviso il dolore acutissimo: l'anestesia sta scemando e senti in un
secondo tutto il dolore dell'universo. E gridi. Il dentista non capisce, poi si
rende conto che è passato talmente tanto tempo che l'anestesia sta finendo.
Deve farti una nuova puntura, ti escono lacrime involontarie, la vista si
appanna e preghi quel dente di lasciarsi strappare dal suo alveo. Ma lui non
vuole, quello è il suo letto, è la sua casa, lui ha diritto di stare lì e non
ne vuole sapere, come un testardo vecchio cieco e sordo che non vuole lasciare
la casa dove è nato e vissuto.
Il
dentista è in difficoltà, parla con gli assistenti e tu lo senti e ascolti “Non
c'è verso, ha radici profondissime, non viene via, va frammentato”. Senti che
stai per metterti a urlare, ma la bocca spalancata a forza te lo impedisce,
inizi a sentire il sapore ferroso del tuo sangue che esce dalla piaga che il
divaricatore ha formato all'angolo della bocca, la saliva non c'è più, aspirata
dal tubicino, vorresti bere e riposare le labbra, chiudere la bocca e piangere.
Il
dentista inizia a rompere il dente in più parti, il rumore è quello della sega
elettrica, sembra che debbano spaccare un blocco di marmo. Non riesci a pensare
a niente se non al dolore.
Il
dentista tira con forza, ha il volto stravolto dallo sforzo, gli assistenti
muti continuano ad aspirare e guardare dentro la tua bocca: sei un caso
particolare perché quel dente maledetto è incastonato come la spada nella
roccia e non c'è Artù da nessuna parte.
Finalmente
il dentista rimbalza all'indietro tenendo stretta la pinza e guardando con
astio il piccolo pezzo di dente che è riuscito ad estrarre “Aspiri il sangue,
subito”. Si asciuga il sudore e lascia cadere il frammento in un ciotolino di
metallo. Tu lo vedi con la coda dell'occhio, ti sembra enorme, ma dentro di te,
nella tua gengiva, alla profondità del nucleo terrestre, c'è ancora un altro
frammento: quello coriaceo, il partigiano che non si fa stanare, che non lascia
il suo posto sulla collina.
Dopo
un'altra ora non stringi neanche più la poltrona con le mani, le braccia sono
abbandonate allo stremo, le gambe e la schiena sono irrigidite e doloranti,
tutte rattrappite nella tensione di resistere al dolore e alla pena per quel
dente che viene strappato a pezzi dal suo habitat. Respirare profondamente non
serve più, passi in rassegna mentalmente tutte le volte in cui avresti potuto
essere migliore e non lo sei stata, tutte le volte che avresti voluto dire o
fare e non hai detto o fatto, ripensi alla mamma, a quando eri piccola, non c'è
più tempo per rimediare agli errori, è chiaro che stai morendo.
Vorresti
piangere e implorare una seconda possibilità, ma il dentista, come un boia
scrupoloso e stacanovista, con un ultimo energico strattone e dopo aver
tagliato e segato come se dovesse produrre un mosaico di prezioso avorio,
estirpa l'ultimo frammento: te lo mostra, con aria di trionfo. Ha gli occhi
rossi, si siede per riprendere fiato. Ma non è ancora finita: disinfettare,
sciacquare, mettere i punti alla ferita.
Passa
ancora un tempo troppo lungo e finalmente tolgono i ferri dalla tua bocca “Può
alzarsi. E' stato difficile, mai capitato un dente così”.
Per
caso, per una sorte maligna, davanti a te c'è uno specchio, non puoi evitarlo:
il tuo volto è tumefatto, il lato destro della faccia è già gonfio, ma non
senti dolore, l'anestetico è ancora in circolo.
Il
preventivo, le raccomandazioni, l'antibiotico, gli sciacqui, non mangiare, per
una settimana poi ci rivediamo per il controllo.
Torni
a casa, il dolore arriva insopportabile tutto insieme, non riesci a resistere,
le medicine non servono a farlo passare, la tua guancia gonfia sempre di più, è
piena della mancanza del dente, e compare il livido. Pulsa, è calda. Il giorno
dopo non hai il coraggio di avvicinarti allo specchio, senti come un corpo
estraneo che continua a crescere.
Ci
vuole un mese per guarire completamente, e un preventivo irritante.
Dopo
tanto tempo continui a sentire il dente che non c'è, il quel punto nascosto e
irraggiungibile della tua bocca c'è l'assenza del dente, la sentirai per
sempre, mancherà sempre qualcosa, la lingua cerca un ostacolo famigliare che è
stato rimosso con ferocia.
L'anima
del dente continua ad abitare quel remoto angolo.
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