lunedì 1 agosto 2016

LA TELEFONATA di Monica Capomonte e Francesco Barilli

Composi il numero distrattamente, mentre con una mano cercavo i cracker nella borsa, tenendo il collo piegato come uno struzzo. L'autobus aveva i finestrini aperti, quindi c'era un caldo infernale e il fracasso copriva tutte le voci dei passeggeri intorno. Un signore sulla cinquantina, ben messo, ci teneva a farmi sapere quanto fosse stata entusiasmante la partita del Galles a Euro2016. Avevo finto la necessità di un telefonata solo perché la piantasse di fare il pappagallo fuori stagione, ma mi restava appiccicato come un wrestler che non vuole mollare la presa. Al telefono rispose questa tizia. Gentile, intendiamoci, ma avevo fatto il numero di casa mia. "Ho sbagliato, mi scusi" tagliai corto. Rifeci il numero con più attenzione, e controllai che fosse quello giusto. Ancora quella voce. Sempre gentile. Ma di donna. A casa mia. Quando io non ero a casa. Ipotesi 1) mio marito mi vede stanca e ha assunto una donna di servizio senza dirmelo: adorabile 2) mio marito mi vede stanca e anche lui si è stancato di me. (Aspetta aspetta aspetta. Jackie diserta l'ufficio per andare a casa nostra con l'amante, e lei risponde al telefono??)

"Mi scusi con chi parlo?" Avete presente la voce che hanno le stronze? Ecco avevo quella voce.

"Sono Judith. E lei è?"

Il fracasso dell'autobus si fa insopportabile, vaneggio qualcosa, lei risponde gentile qualcos'altro, nessuna delle due sente niente. Il tizio ben messo sulla cinquantina mi acchiappa mentre la frenata ci fa precipitare contro la portiera davanti. Il cellulare cade, si apre in tre pezzi. Mi chino, mentre uno studente cerca di travolgermi e una vecchia carampana spinge per uscire, come se potessi diventare di maionese e farla passare. Con la calma del giusto recupero due pezzi del mio vetusto telefonino, manca la pila. Che è in mano del tizio ben messo. "Grazie" (la voce a stronza è sempre quella). Scendo, anche se mancano quattro fermate. Ah, le comode panchine in pietra di una volta. Rimetto insieme il cimelio telefonico, il tempo di vedere il display illuminarsi d'immenso e la fatidica scritta "incoming call" comincia a lampeggiare. "Ehi". E' Jackie, dall'ufficio. Niente amante. Racconto la faccenda di questa Judith, ma dopo sei secondi ha già smesso di ascoltarmi.

Va bene, va bene. Riattacco. Compongo di nuovo il numero di casa.

Squilla, squilla: niente.

Mi dimentico della faccenda per quattro anni, tanti ne sono passati da allora. Nel frattempo, Jackie eredita dai suoi genitori un appartamento grande tre volte il nostro, davanti a Roath Park. Abbiamo messo un annuncio per vendere la nostra vecchia casa, abbiamo appuntamento alle 4 con l'agente immobiliare coi dentoni.

Suonano alla porta. Apro, sforzandomi di sorridere.

"Ciao" mi fa quello coi dentoni "ti presento la cliente che è interessata alla vostra casa. Accanto a lei una tizia, sembra gentile.

La voce, sprofondassi nell'inferno del Galles, è quella: "Sono Judith. E lei è?"

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