Certo
che lo desiderava. Lo osservava attentamente tutte le mattine, seduta al suo
tavolino. Si sistemava diligentemente sotto gli ombrelloni, nel dehors che si affaccia sulla piccola
piazza ombrosa. Una delizia sedere lì, in questi giorni in cui la bella stagione
è cominciata da poco, le piante muovono le foglie alla brezza sfarfallando come
applausi silenziosi e le persone si raccontano a bassa voce il modo in cui
hanno trascorso la serata precedente - all’aperto, lungo i canali, bevendo
birra al tramonto sotto le luci discrete delle decorazioni estive. Quel tempo
in cui come per una strana magia siamo più sereni, leggeri che pare di
pattinare sulla terra, sorridenti e vestiti di chiaro.
Aveva
studiato l’orario in cui arrivava e si faceva trovare preparata per tempo, un
lungo latte macchiato davanti e una brioche burrosissima, da sbocconcellare
come una formichina. Nessuno le diceva niente, mentre rimaneva incantata a
osservarlo. Lui arrivava in bicicletta, la legava a uno dei paletti al limitare
della piazza pedonale, appena prima che cominci la pavimentazione a sampietrini
di porfido rosso. Si sedeva su una panchina sotto gli alberi più sottili,
quelli con il fusto ancora legato al sostegno, e cominciava la sua
preparazione. Appoggiava lo specchio all’alta fioriera accanto e spalmava il
viso di una crema bianca e densa, prima con movimenti veloci e generici, poi
sempre più lentamente, dettagliando ogni angolo della superficie alla maniera
di un pittore meticoloso. Una minuscola goccia scura sotto l’occhio, sempre il
sinistro, e la trasformazione era quasi pronta. La bombetta sul capo, le
bretelle e un palcoscenico disegnato in terra con il gessetto colorato.
Dalle
sue mani uscivano improvvisamente mazzi di fiori, strumenti coloratissimi e
minuscoli, bolle di sapone e perfino animali. Chiuso in un silenzio gentile,
avvicinava i passanti e offriva sorrisi, piccole sorprese, polvere di fantasia
in ordine sparso. Mai invadente, mai aggressivo. Il suo numero più bello, o
almeno quello che lei amava di più, era lo specchio. Le persone passavano e lui
per un breve tratto le accompagnava, prendendone esattamente la stessa postura.
Non c’era ironia nella sua imitazione, solo una autentica immedesimazione, un
cortese omaggio. Sentiva la partecipazione, l’empatia profonda che viveva e che
provava per ogni persona che affiancava. Alti, bassi, frettolosi o lenti, donne
uomini bambini. Di ogni colore genere o abbigliamento, lui diventava loro per
qualche passo. E quelli che si giravano, per un attimo vedevano se stessi. Alcuni
si infastidivano, molti ridevano, qualcuno lasciava una moneta. Sempre - sempre
- i bambini interrompevano il loro percorso e rispondevano al gioco,
gesticolando in modo ostentato, ridendo, ballando e saltando, senza mai
staccare gli occhi dal loro doppio per verificare i propri movimenti, per
godere di quel trionfo di loro stessi in duplice copia muta.
Anche
lei non gli staccava mai gli occhi di dosso. Non avrebbe saputo dire
esattamente come era cominciata e perché, cosa provava per quel mimo sorridente
con una lacrima sotto l’occhio. Sapeva solo che non poteva, non riusciva
proprio a fare a meno di contemplarlo a mattinate intere, come ipnotizzata.
Come se lui racchiudesse in quel corpo morbido e flessuoso un segreto che a lei
sfuggiva, e di cui aveva disperatamente bisogno. Guardava le sue mani, delicate
e lunghe mani di artista, il collo sottile quasi femminile, le gambe atletiche
dalla muscolatura disegnata che si intravedeva sotto i pantaloni aderenti. Le
braccia solide e compatte, le orecchie piccole. I riccioli che si allungavano e
si riavvolgevano come lucidi serpenti tutte le volte che si sfilava il
cappello. Ma soprattutto vedeva la magia che emanava. La luce riflessa sulle
nuvole all’alba, le note acute cristalline e quelle più gravi che si attorcigliavano
in melodie indispensabili, tutto l’arcobaleno in polvere di fata, il profumo di
biscotti, la frescura dei torrenti di montagna. Il calore della sabbia e il
candore delle conchiglie, la morbidezza dell’erba alta e un’infinità di storie
appassionanti, di avventure nella giungla, inseguimenti a perdifiato e
spedizioni tra le stelle.
Rimaneva
così, incantata a guardarlo, sognando di afferrare quella meraviglia che lui
raccontava senza parlare.
Passarono
così i mesi. Nell’estate che impazziva di caldo, si ripetevano i gesti e si
ritualizzavano gli appuntamenti. Fino a che un giorno.
Un
occhio attento avrebbe notato le nuvole nere che veleggiavano da sud ovest,
minacciose come una flottiglia di navi pirata. Aveva appena finito di tracciare
con il gesso in terra le linee necessarie che cominciarono a cadere le prime
gocce. Grosse, dure, pesanti come piombo. Le persone cominciarono ad affrettare
il passo in modo direttamente proporzionale al cadere dell’acqua. In un attimo
fu nero, un tuono violentissimo fece tremare le ali dei passeri rintanati negli
angoli. I clienti si ritirarono dal dehors con le ordinazioni in mano. Il fuggi
fuggi era generalizzato. Anche lui raccolse in fretta e furia le sue cose,
raggiunse la bici e corse via con ancora la faccia completamente bianca.
La
pioggia si rovesciò prepotente e rabbiosa lavando le strade e strappando le
foglie più deboli dai rami. Lei osservava la scena in piedi, dietro al vetro
del locale, la brioche dimenticata sul tavolino accanto. Non ci volle molto
perché smettesse.
Dopo
un temporale violento, la sensazione è sempre quella di essere sopravvissuti a
un conflitto. Le persone si riaffacciano quasi inebetite, osservando il cielo
tra l’incredulo e il grato, osservando ogni dettaglio luccicante come se lo
vedessero per la prima volta. È un incantamento che dura un attimo; poi bisogna
ritornare alle proprie attività, il tempo riprende il suo scorrere regolare. Ma
quel momento è speciale: è un risveglio collettivo, una sospensione benedetta
che apre alla speranza. Che le cose non siano solo cambiate, ma addirittura
migliori. È il settembre di tutti, quando si torna a scuola carichi di buoni
propositi ed entusiasmo.
In
mezzo alla gente che si riappropriava del posto che le spettava nella generale
rappresentazione quotidiana, lei rimaneva lenta. Mentre tutti riacquisivano il
ritmo e tornavano a distrarsi con i doveri quotidiani, uscì dal bar come una
lumachina dal guscio, allungando le antenne con titubanza. Raggiunse lo spazio
tra gli alberelli al centro della piazza - i sostegni avevano funzionato bene e
i giovani fusti erano ancora solidamente ritti, anche se i rami erano
allegramente spettinati. Le linee tracciate con il gesso erano sparite,
sciacquate via in un attimo. Eppure, il gessetto era ancora lì. Solo un
mozzicone giallo canarino, abbandonato sotto la panchina. Lei lo raccolse e
sorrise. Poi si chinò, e cominciò a tracciare la prima linea del suo palco.
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