lunedì 1 agosto 2016

COMEUNINCANTAMENTO di Sabrina Carollo


Certo che lo desiderava. Lo osservava attentamente tutte le mattine, seduta al suo tavolino. Si sistemava diligentemente sotto gli ombrelloni, nel dehors che si affaccia sulla piccola piazza ombrosa. Una delizia sedere lì, in questi giorni in cui la bella stagione è cominciata da poco, le piante muovono le foglie alla brezza sfarfallando come applausi silenziosi e le persone si raccontano a bassa voce il modo in cui hanno trascorso la serata precedente - all’aperto, lungo i canali, bevendo birra al tramonto sotto le luci discrete delle decorazioni estive. Quel tempo in cui come per una strana magia siamo più sereni, leggeri che pare di pattinare sulla terra, sorridenti e vestiti di chiaro.

Aveva studiato l’orario in cui arrivava e si faceva trovare preparata per tempo, un lungo latte macchiato davanti e una brioche burrosissima, da sbocconcellare come una formichina. Nessuno le diceva niente, mentre rimaneva incantata a osservarlo. Lui arrivava in bicicletta, la legava a uno dei paletti al limitare della piazza pedonale, appena prima che cominci la pavimentazione a sampietrini di porfido rosso. Si sedeva su una panchina sotto gli alberi più sottili, quelli con il fusto ancora legato al sostegno, e cominciava la sua preparazione. Appoggiava lo specchio all’alta fioriera accanto e spalmava il viso di una crema bianca e densa, prima con movimenti veloci e generici, poi sempre più lentamente, dettagliando ogni angolo della superficie alla maniera di un pittore meticoloso. Una minuscola goccia scura sotto l’occhio, sempre il sinistro, e la trasformazione era quasi pronta. La bombetta sul capo, le bretelle e un palcoscenico disegnato in terra con il gessetto colorato.

Dalle sue mani uscivano improvvisamente mazzi di fiori, strumenti coloratissimi e minuscoli, bolle di sapone e perfino animali. Chiuso in un silenzio gentile, avvicinava i passanti e offriva sorrisi, piccole sorprese, polvere di fantasia in ordine sparso. Mai invadente, mai aggressivo. Il suo numero più bello, o almeno quello che lei amava di più, era lo specchio. Le persone passavano e lui per un breve tratto le accompagnava, prendendone esattamente la stessa postura. Non c’era ironia nella sua imitazione, solo una autentica immedesimazione, un cortese omaggio. Sentiva la partecipazione, l’empatia profonda che viveva e che provava per ogni persona che affiancava. Alti, bassi, frettolosi o lenti, donne uomini bambini. Di ogni colore genere o abbigliamento, lui diventava loro per qualche passo. E quelli che si giravano, per un attimo vedevano se stessi. Alcuni si infastidivano, molti ridevano, qualcuno lasciava una moneta. Sempre - sempre - i bambini interrompevano il loro percorso e rispondevano al gioco, gesticolando in modo ostentato, ridendo, ballando e saltando, senza mai staccare gli occhi dal loro doppio per verificare i propri movimenti, per godere di quel trionfo di loro stessi in duplice copia muta.

Anche lei non gli staccava mai gli occhi di dosso. Non avrebbe saputo dire esattamente come era cominciata e perché, cosa provava per quel mimo sorridente con una lacrima sotto l’occhio. Sapeva solo che non poteva, non riusciva proprio a fare a meno di contemplarlo a mattinate intere, come ipnotizzata. Come se lui racchiudesse in quel corpo morbido e flessuoso un segreto che a lei sfuggiva, e di cui aveva disperatamente bisogno. Guardava le sue mani, delicate e lunghe mani di artista, il collo sottile quasi femminile, le gambe atletiche dalla muscolatura disegnata che si intravedeva sotto i pantaloni aderenti. Le braccia solide e compatte, le orecchie piccole. I riccioli che si allungavano e si riavvolgevano come lucidi serpenti tutte le volte che si sfilava il cappello. Ma soprattutto vedeva la magia che emanava. La luce riflessa sulle nuvole all’alba, le note acute cristalline e quelle più gravi che si attorcigliavano in melodie indispensabili, tutto l’arcobaleno in polvere di fata, il profumo di biscotti, la frescura dei torrenti di montagna. Il calore della sabbia e il candore delle conchiglie, la morbidezza dell’erba alta e un’infinità di storie appassionanti, di avventure nella giungla, inseguimenti a perdifiato e spedizioni tra le stelle.

Rimaneva così, incantata a guardarlo, sognando di afferrare quella meraviglia che lui raccontava senza parlare.

Passarono così i mesi. Nell’estate che impazziva di caldo, si ripetevano i gesti e si ritualizzavano gli appuntamenti. Fino a che un giorno.

Un occhio attento avrebbe notato le nuvole nere che veleggiavano da sud ovest, minacciose come una flottiglia di navi pirata. Aveva appena finito di tracciare con il gesso in terra le linee necessarie che cominciarono a cadere le prime gocce. Grosse, dure, pesanti come piombo. Le persone cominciarono ad affrettare il passo in modo direttamente proporzionale al cadere dell’acqua. In un attimo fu nero, un tuono violentissimo fece tremare le ali dei passeri rintanati negli angoli. I clienti si ritirarono dal dehors con le ordinazioni in mano. Il fuggi fuggi era generalizzato. Anche lui raccolse in fretta e furia le sue cose, raggiunse la bici e corse via con ancora la faccia completamente bianca.

La pioggia si rovesciò prepotente e rabbiosa lavando le strade e strappando le foglie più deboli dai rami. Lei osservava la scena in piedi, dietro al vetro del locale, la brioche dimenticata sul tavolino accanto. Non ci volle molto perché smettesse.
 
Dopo un temporale violento, la sensazione è sempre quella di essere sopravvissuti a un conflitto. Le persone si riaffacciano quasi inebetite, osservando il cielo tra l’incredulo e il grato, osservando ogni dettaglio luccicante come se lo vedessero per la prima volta. È un incantamento che dura un attimo; poi bisogna ritornare alle proprie attività, il tempo riprende il suo scorrere regolare. Ma quel momento è speciale: è un risveglio collettivo, una sospensione benedetta che apre alla speranza. Che le cose non siano solo cambiate, ma addirittura migliori. È il settembre di tutti, quando si torna a scuola carichi di buoni propositi ed entusiasmo.
In mezzo alla gente che si riappropriava del posto che le spettava nella generale rappresentazione quotidiana, lei rimaneva lenta. Mentre tutti riacquisivano il ritmo e tornavano a distrarsi con i doveri quotidiani, uscì dal bar come una lumachina dal guscio, allungando le antenne con titubanza. Raggiunse lo spazio tra gli alberelli al centro della piazza - i sostegni avevano funzionato bene e i giovani fusti erano ancora solidamente ritti, anche se i rami erano allegramente spettinati. Le linee tracciate con il gesso erano sparite, sciacquate via in un attimo. Eppure, il gessetto era ancora lì. Solo un mozzicone giallo canarino, abbandonato sotto la panchina. Lei lo raccolse e sorrise. Poi si chinò, e cominciò a tracciare la prima linea del suo palco.
 
 
 

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