lunedì 1 agosto 2016

AMICI DI PALCO, di Andrea Mitri

Il primo ad accorgersi che qualcosa non andava fu Gunther Dietmar, il regista tedesco: un omaccione di un metro e novanta per 110 chili, che a scapito della corporatura era dotato di una sensibilità e di un’attenzione alla figura dell’attore, che ne faceva uno di quei maestri con cui lavorare almeno una volta nella vita.
Fu lui, a chiamare pausa, verso la fine della quarta scena del secondo atto, quando Alfredo Rugani si inceppò per la terza volta, in un apparente vuoto di memoria che andava a confliggere con la sua proverbiale capacità di non sbagliare una battuta.
Fu in quell’istante preciso, che l’attore italiano potè con certezza affermare a sé stesso, quello che negli ultimi minuti gli era sembrato di percepire: il suo amico immaginario era sparito.
Non che non ne avesse mai paventato la possibilità.
Spesso litigavano e si allontanavano l’uno dall’altro, anche per lungo periodo, ritrovandosi poi con rinnovata amicizia. A volte spariva durante le cene dopo il debutto, o nel bel mezzo di un’intervista. Non c’era stato ad esempio il 22 marzo del 1999, quando Alfredo ritirò il premio come miglior attore dell’anno per il suo meraviglioso personaggio di Mercuzio, e neppure quella volta che in tv si era abbassato a fare da ospite in una trasmissione del pomeriggio, su insistenza quasi maniacale del proprio agente, che voleva dargli una qualche visibilità fuori dal palcoscenico.
Ma mai Mark era mancato ad una prova, ad uno spettacolo o anche ad un semplice reading.
Non era mai successo, e per fortuna. Perchè senza la presenza del suo amico immaginario, Alfredo Rugani era un attore mediocre, incline allo stereotipo e peraltro posseduto da una sconcertante inclinazione al birignao, che lo avrebbe tolto in meno di 12 minuti da qualsiasi palcoscenico importante.
Perché era Mark ad entrare in azione quando il personaggio necessitava delle emozioni necessarie, lui che si accollava il pianto sconsolato, la rabbia incontenibile, l’invidia più subdola; ma anche il riso più irrefrenabile, l’allegria coinvolgente e la generosità estrema.
Non appena il testo o la situazione richiedevano una profondità più accentuata, era Mark che vi si infilava, incurante delle conseguenze derivabili per la propria persona. Anche le meravigliose scene di seduzione nel film “Matera 1990, una storia italiana” appartenevano a lui, dal momento che mai e poi mai Alfredo sarebbe riuscito ad innamorarsi di Pamela Feuerback, in quel modo così assoluto, al limite della follia, che la sceneggiatura richiedeva.
L’amico immaginario non era apparso in tenera età come a molti succede.
La prima volta della loro amicizia fu durante un corso di perfezionamento all’ Actor’s Studio di New York che il venticinquenne attore era riuscito a pagarsi offrendo corpo e volto alla pubblicità della Fiat Duna, mezzo di cui non erano poi andati fieri né lui né la Fiat.
Nel mezzo di un ricordo, che avrebbe dovuto risultare doloroso per lui e per l’anziana attrice americana che teneva il corso, Mark apparve,  piangendo di un pianto così singultante, che ad Alfredo gli ci vollero 10 minuti per calmarsi ed apprezzare appieno il commosso applauso che la classe gli aveva restituito al termine dell’improvvisazione.
Da allora sul palco erano stati sempre insieme; fino a questo fatidico 11 luglio 2013.
Che questa volta qualcosa potesse non andare per il verso giusto però, Alfredo avrebbe dovuto cominciare a sospettarlo già nel momento in cui gli avevano detto che il suo albergo era al numero 13 di Via Slataper; oppure quando la produzione stabilì che le prime repliche si sarebbero svolte dal 13 al 17 luglio. Superstizioso com’era, avrebbe dovuto ribellarsi, pretendere cambiamenti, premunirsi. E invece se n’era rimasto tranquillo, concentrandosi sul suo lavoro e godendosi il fatto di poter girovagare per più di un mese, negli angoli rimessi di questa città sveviana.


 

Il giorno della prova generale, Alfredo non si inceppò, ma mai raggiunse, nemmeno per un attimo, la credibilità, nel suo rappresentare quell’uomo disperato e tradito che il suo personaggio diveniva all’interno del dramma polacco che andava recitando.

Gunther Dietmar lo rincuorò, con la solita considerazione che quando una prova generale andava male, la prima sarebbe stato un successo.

Ma Alfredo dubitava che ciò sarebbe accaduto: era consapevole che se non fosse riapparso Mark, il debutto sarebbe stato un disastro, le repliche pure e la tournè una lenta inesorabile agonia. Stupidamente gli scrisse una lettera che non avrebbe mai potuto spedire, lo attese fino alle sei del mattino nella sua solitudine alberghiera e lo implorò di preghiere mai pronunciate prima.

Ma quando poi la sera del 13 il sipario si aprì, il suo amico immaginario non c’era.

Eppure, fu un successo comunque. La gente si commosse e pianse, di fronte alla sofferenza di quell’uomo che vagava per il palco, abbandonato per sempre dalla moglie che credendolo morto non aveva atteso più il suo ritorno e si era ricostruita una vita, da cui ora non voleva più staccarsi. E rise, di quella imbranataggine sottile che l’uomo aveva nell’affrontare oggetti che per vent’anni non aveva mai maneggiato.

Gli applausi finali durarono dodici minuti e quaranta secondi.

Fu al settimo minuto di questi, che Alfredo lo vide, alzarsi dal suo posto in decima fila , sorridergli a lungo e salutarlo , semplicemente accennando un piccolo gesto con la mano all’altezza della fronte.

E fu sempre allora che le lacrime gli uscirono calde e copiose lungo il viso, vere come mai gli era  capitato in tutti questi anni.

Alzò la mano anche lui e rispose al saluto, tenendo poi lo sguardo fisso su Mark che si allontanava.

Teneramente abbracciato a Pamela Feuerback.

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