Non verrò questo
pomeriggio, sabato 27 marzo 2016 alle ore 18, all’ inaugurazione della tua mostra
“Solitudine e riverbero” , presso la Galleria Mandelli in Via dei Giubbonari 14
a Roma. Non prenderò ancora una volta la macchina per venire all’ennesimo vernissage fatto di
gente vestita accuratamente disordinato, aromatizzata dall’ultima essenza
giapponese e impegnata a rimestare nel bicchiere l’ultimo vino di tendenza. Non credo proprio che affronterò il traffico
romano nell’ora di punta con la mia Fiat Panda , per impazzire poi a cercare parcheggio nei pressi di quella
cazzo di Galleria Mandelli, che, come tutte le gallerie di tendenza, si trova
in un posto dove si può arrivare solo in taxi. Non verrò a condividere i saluti
di circostanza, né a mescolarmi alle belle frasi a metà tra la citazione e la
rielaborazione, esibite in giusta misura a riempire il vuoto temporale che ci
separa dal buffet, dall’apericena, dal sushi bar. Così facendo oltretutto,
potrò non concedermi alle valutazioni complessive disseminate tra un crocchio e
l’altro, e al loro quantificare i valori presenti: un vestito di Prada, un
Panerai Luminor, un corpo modellato Klab , una
tua foto del 2009. Non mi unirò al coro di incensamenti che mortifica
l’unicità, giudicando “straordinario”
qualsiasi accadimento gli si pari davanti agli occhi, “toccante” qualsiasi cosa
richieda una minima attenzione,
“geniale” qualsiasi idea esuli il già visto. Non verrò. E non a causa del “mio inutile ricercato
tentativo di non appartenere a questo mondo”, come spesso ti ho sentito
pontificare, al susseguirsi del mio disagio nello stare nei luoghi deputati
all’arte contemporanea. E nemmeno per ripicca , o stupida presa di posizione, contro
il fatto che per tutta la settimana non mi hai risposto al telefono; né perché
non ti sei fatto più vivo dalle 13.40 di quello stupido lunedì scorso, quando
mi hai lasciata da sola al ristorante, con il conto pagato, in un gesto finale
di signorilità presunta che non ti avevo richiesto.
Non verrò, e non
perché, come credo tu abbia capito, non
ti considero il grande artista che pensi
di essere, quello che gli altri si sono velocemente convinti che tu sia. Non
credo infatti che il rinchiudersi in una grotta per un mese e poi farsi un
selfie all’uscita, abbacinato dal sole, si possa definire arte. Si è vero, il
critico del New Yorker , ha definito la cosa “ paleolitismo tecnologico, ovvero
il punto di unione tra quello che eravamo e quello che siamo” e Vittorio Sgarbi
ha trovato il tuo lavoro “degno della ricerca della giusta luce che era già
stata prerogativa caravaggesca” . Ed è pure vero che il Guggenheim ti ha
comperato i tre selfie di uscita da quella grotta sul carso triestino, di
cui hanno apprezzato sullo sfondo il “toccante statico svolazzare delle foglie
mosse da una bora partecipe” . E non posso di sicuro negare, che una ricca collezionista giapponese abbia speso
una cifra impensabile, per ricreare l’habitat di quella stessa grotta all’interno
della sua villa a Kyoto, e permettersi di farti stare un mese da lei, in cambio della possibilità di selfarsi
insieme a te all’uscita.
Scusami, ma anche se ti
apprezzo molto, io continuo a credere che
tutto ciò non possa automaticamente qualificarti come artista indispensabile all’umanità.
Anche se la foto con l’autoscatto che abbiamo
fatto insieme nel 2003 , all’ uscita del Piccolo Teatro di Milano,
quaranta minuti prima dello scandire dei miei ventuno anni, rimarrà per sempre l’opera
d’arte più bella appesa alla mia parete.
Ti mando questo
mazzo di fiori e questa lettera, per
dirti che molto più semplicemente non verrò perché oggi, finalmente, è una
meravigliosa giornata di sole di primavera.
Con affetto
Lisa
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