domenica 1 maggio 2016

MOKA PER SEMPRE di Giovanna Daddi

Un Natale di pochi anni fa lei è entrata in casa mia, con l’astuzia del dono degli Achei. La sua forma rotonda e rassicurante, a somiglianza di cucciolo di pinguino, il suo colore bianco latte. L’ho messa nel suo posto ideale, il ripiano di ceramica della cucina, accanto al microonde, a fare bella mostra di sé. All’inizio l’ho guardata con sospetto, ma poi, di giorno in giorno, mi ha conquistata. E’ veloce, silenziosa, pulita, fa il suo lavoro senza chiederti niente.

La macchina espresso nescafè.

Tu devi solo premere un discreto bottone, dopo aver inserito una cialda lustra e gonfia: espresso, intenso, barista, deca, cappuccino, orzo, latte macchiato. Quello che vuoi, c’è. La mattina presto risolve i tuoi problemi di connessione con la realtà: appena ti alzi, nel tuo poco tempo smarrito, nel vortice d’ansia del rischio di far tardi, premere quel bottone ti dà l’avvio in un secondo, senza sforzi e senza pensieri. E, d’improvviso, sei sveglio.

Però manca qualcosa. Ci siamo persi un pezzo, e lì per lì non gli abbiamo dato troppa importanza. E invece c’è un vuoto.

La moka.

Adesso la moka sta lì, in un angolo dell’acquaio, sbilenca tra una brocca, un bollitore e un tagliere, con la patina triste dei cimeli dimenticati in cantina, e in un angolo della nostra mente. Ma la coscienza rimanda ricordi preziosi e un profumo indimenticabile, dei tempi in cui la moka bialetti stava al posto d’onore in cucina, oggetto sacro e circondato di rispetto, mai troppo distante dal posacenere di peltro e da un pacchetto di john player special senza filtro o di kent.

Sono cresciuta così, con il profumo del caffè che passa nella moka la mattina presto, che si diffonde fino alle camere da letto, con quel borbottio discreto e sommesso che sembrava dirmi con dolcezza “Ti devi svegliare, alzati che è ora”. Tutti abbiamo guardato, con occhi insonnoliti, le mamme in vestaglia che svitavano, sciacquavano, riempivano d’acqua, prendevano il contenitore del caffè e riempivano la moka di polvere con il cucchiaino, sempre lo stesso, infilato nel caffè dentro al contenitore. Poi accendevano il fornello e stavano lì, ad attendere che la moka finisse di fare il suo lento lavoro, con il desiderio di bere quel caffè che era un po’ la promessa che la giornata non sarebbe stata uno schifo: per forza, se inizi con quel profumo, almeno puoi sperare che il giorno sia clemente. Anni dopo ci siamo abituati a preparare la moka la sera, per non doverlo fare la mattina. Quei gesti lenti e precisi, ripetitivi e automatici, eleganti come il rito giapponese del tè. Se la polvere nera cadeva dal cucchiaino, o andava fuori dai bordi, dovevi pulire, altrimenti non si avvitava bene. Poi la appoggiavi sui fornelli spenti, e andavi a dormire. Tranquilla, che lei stava lì, e la mattina avresti dovuto solo accendere la fiamma. E aspettare.

Potevi dimenticarti di prepararla la sera. Perciò il rito si spostava alla mattina appena sveglia. Ed è lì che ci hanno fregati: la fretta, la voglia di avere tutto e subito, che devia verso quelle macchine di plastica ingombranti che non profumano e non sanno di niente.

E invece la moka è arte, un’arte antica di bellezza dimessa. E noi dobbiamo riprendercela. Facendo un po’ più piano, un po’ più tardi, e ringraziando il Signor Bialetti, ora e sempre.

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