La
macchina espresso nescafè.
Tu
devi solo premere un discreto bottone, dopo aver inserito una cialda lustra e
gonfia: espresso, intenso, barista, deca, cappuccino, orzo, latte macchiato.
Quello che vuoi, c’è. La mattina presto risolve i tuoi problemi di connessione
con la realtà: appena ti alzi, nel tuo poco tempo smarrito, nel vortice d’ansia
del rischio di far tardi, premere quel bottone ti dà l’avvio in un secondo,
senza sforzi e senza pensieri. E, d’improvviso, sei sveglio.
Però
manca qualcosa. Ci siamo persi un pezzo, e lì per lì non gli abbiamo dato
troppa importanza. E invece c’è un vuoto.
La
moka.
Adesso
la moka sta lì, in un angolo dell’acquaio, sbilenca tra una brocca, un
bollitore e un tagliere, con la patina triste dei cimeli dimenticati in
cantina, e in un angolo della nostra mente. Ma la coscienza rimanda ricordi
preziosi e un profumo indimenticabile, dei tempi in cui la moka bialetti stava
al posto d’onore in cucina, oggetto sacro e circondato di rispetto, mai troppo
distante dal posacenere di peltro e da un pacchetto di john player special
senza filtro o di kent.
Sono
cresciuta così, con il profumo del caffè che passa nella moka la mattina
presto, che si diffonde fino alle camere da letto, con quel borbottio discreto
e sommesso che sembrava dirmi con dolcezza “Ti devi svegliare, alzati che è
ora”. Tutti abbiamo guardato, con occhi insonnoliti, le mamme in vestaglia che
svitavano, sciacquavano, riempivano d’acqua, prendevano il contenitore del
caffè e riempivano la moka di polvere con il cucchiaino, sempre lo stesso,
infilato nel caffè dentro al contenitore. Poi accendevano il fornello e stavano
lì, ad attendere che la moka finisse di fare il suo lento lavoro, con il
desiderio di bere quel caffè che era un po’ la promessa che la giornata non
sarebbe stata uno schifo: per forza, se inizi con quel profumo, almeno puoi
sperare che il giorno sia clemente. Anni dopo ci siamo abituati a preparare la
moka la sera, per non doverlo fare la mattina. Quei gesti lenti e precisi,
ripetitivi e automatici, eleganti come il rito giapponese del tè. Se la polvere
nera cadeva dal cucchiaino, o andava fuori dai bordi, dovevi pulire, altrimenti
non si avvitava bene. Poi la appoggiavi sui fornelli spenti, e andavi a
dormire. Tranquilla, che lei stava lì, e la mattina avresti dovuto solo
accendere la fiamma. E aspettare.
Potevi
dimenticarti di prepararla la sera. Perciò il rito si spostava alla mattina
appena sveglia. Ed è lì che ci hanno fregati: la fretta, la voglia di avere
tutto e subito, che devia verso quelle macchine di plastica ingombranti che non
profumano e non sanno di niente.
E
invece la moka è arte, un’arte antica di bellezza dimessa. E noi dobbiamo
riprendercela. Facendo un po’ più piano, un po’ più tardi, e ringraziando il
Signor Bialetti, ora e sempre.
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