domenica 1 maggio 2016

L'UOMO CHE DISSE DI ESSERE DIO di Francesco Barilli

Avevo voglia di bestemmiare. Il bar come atmosfera aiutava: i salatini non erano salati e oltretutto non c’entravano niente con quello che stavo bevendo. C’era una lama di luce accecante che filtrava attraverso il vetro della finestra, tra un improbabile flipper e un videogame da mentecatti in cui un coniglio sparava sulla folla, vai te a sapere il motivo. Tutto riusciva a essere meravigliosamente fuori luogo in quel posto, dalla forma dei bicchieri al colore delle tovagliette sui tavolini troppo bassi perfino per dei  nani sdraiati.  Ero frastornato, o forse semplicemente solo. Io e io, amici per la pelle. Quante belle chiacchierate mi ero fatto in quella compagnia: discorsi interessanti, lo dico sul serio. Avevo un groviglio di parolacce e bestemmie annodate in gola che aspettavano solo di essere sciolte, ma non fiatai. Volevo andarmene da quel bar scalcinato, lontano da quell’insegna di cattivo gusto, da quelle tapparelle adatte a un ambulatorio medico più che a un caffè, e affondare la testa tra le foglie cadute al suolo, in un bosco, magari. Avevo voglia di vedere il colore della rugiada. Volevo sentire il sapore dell’erba tra i denti, succhiare uno stelo d’erba e assaporare il gusto della freschezza della natura che scende in gola e manda via quella sensazione amarognola che a volte si annida in qualche angolo della bocca. E poi avevo un tremendo bisogno di stare da solo: di trovarmi nel silenzio, io e io, amici per la pelle. O se si vuole, io e quel tale lassù a cui avevo un sacco di domande da rivolgere. Non sarebbe stata una conversazione tra amici, c’era tra di noi qualcuno che aveva una gran voglia di attaccare briga, e quel qualcuno ero io. Come dicevo, avevo voglia di bestemmiare. Oppure di lasciarmi stupire dalla meraviglia del tramonto, dalla carezza di un ramo che si chinava in un cespuglio: si può essere dannatamente poetici quando si è mezzi alcolizzati. Per giunta non c’erano alberi dove mi trovavo. Solo posacenere pieni di robaccia grigia e granulosa, sopra tavolini da poker buoni per un nano sdraiato. C’erano briciole sul pavimento, dappertutto. Sotto i tavolini, lungo il bancone, perfino sul videogame: il ragazzetto delle favole non avrebbe saputo fare di meglio; nessun dannato bambino avrebbe perso la strada nel bosco. Ma non c’era nessun bosco, nessun animaletto dal musetto irresistibile uscito da un cartone animato. Quel locale era sudicio. E io avevo voglia di bestemmiare. Mandai giù un piccolo sorso, quasi avessi all’improvviso cambiato idea, poi ci ripensai. Una bestemmia ci stava, ma non volevo che fosse buttata là senza impegno. C’è dell’ampia letteratura sull’argomento, persone che hanno dato e continuano a dare il meglio di sé quando si tratta di scomodare gli Inquilini del Piano di Sopra. Fior di giocatori di biliardo, di ultras di calcio, la crema dei carrozzieri, mica dilettanti.

Cercai quindi qualcosa col pensiero che valesse davvero la pena di abbinare al Nome dei Nomi. Di solito si scomoda Zio Tobia e tutta la sua maledetta fattoria degli animali: serpente, scimmione, lepre, castoro; ma no uno valeva l’altro: stregone, pistolero. Risi a quella che ritenni un’insuperabile sequela di battute, che nessuno tranne me poteva apprezzare nel suo sconfinato umorismo. Poi la risata mi si gelò nella bocca piena d’alcool. Il tale che era seduto accanto a me mi aveva lanciato un’occhiata che mi aveva ammutolito. Nessun rimprovero, ci mancherebbe: lo avrei mandato all’inferno, e l’avrei combinata bella. Più che seduto era ripiegato come un burattino magro e malaticcio su quel seggiolino da asilo infantile. Dava l’idea di aver camminato settimane sotto il sole a picco: uno di questi autostoppisti con l’aria da illuminato che vanno in giro per l’Europa in cerca di stessi, con sulle spalle uno zaino pieno di ogni inutile cianfrusaglia esistente al mondo. Ma non era il solito turista balordo. C’era qualcosa nel suo silenzio che ti portava a rendergli rispetto, mi sarei tolto il cappello se oggi usasse ancora metterlo. Ci sono persone che ti appaiono valide, quando le incontri. Intelligenti, credo sia quella la parola. Non so cosa c’entri capirci qualcosa di algebra o trigonometria coll’evitare di avere una faccia da fesso, però dev’essere così. “Guarda quel tale: quello sì che ha una faccia intelligente!” E’ inevitabile che chi distingue il mondo in stupidi e intelligenti si riservi un posto nel riservato club dei furbacchioni. Mai uno che ti dica: “Il mondo si divide in persone capaci e mentecatti. Io purtroppo sono un cretino.” Mai una volta. E’ sempre: “Quello sì che ha una testa che funziona.” E intanto con la faccia ti dice: “Ecco uno dei nostri.” Il tale che mi trovavo davanti non mi fece quest’impressione, e una volta tanto la mia cretineria non c’entrava. Non mi sentivo affatto uno dei suoi. Lui era diverso. Come se si fosse trattato di una bella sventolona con la scollatura della madonna, gli chiesi chi era. Lui mi dette una risposta che non si sente tutti i giorni, almeno da uno sano di testa.

Quando gli feci la domanda, mi rispose di essere Dio. Non la madonna, ma ci ero andato vicino. Il videogame dentro la mia testa fece sparare il coniglio all’impazzata, contro tutto e tutti. Lo strano fu che non mi passò nella mente neppure per un istante che si stesse prendendo gioco di me. C’è la fila di quelli che mio prendono per il culo: quando qualcuno si mette in testa di cominciare a sfottere, gli raccomando di mettersi in coda. Ma il modo con cui lo disse mi portò a credere che fosse vero. Punto e basta. Per la verità non pensai a DioDio, quanto piuttosto a uno di questi santoni che possono stare intere settimane senza mangiare e senza dormire, che si cibano soltanto della Luce del Cosmo. Fatto sta che mi scusai con lui per le bestemmie che avevo pensato e lui fece cenno come a dirmi “non importa”. O ero fesso io, o era andato di testa lui, delle due l’una.

Un improvviso terrore mi assalì, sentii il pallone da calcio della follia bello gonfio tra le mie dita, pronto a scoppiarmi in faccia. Che fine avevano fatto le giornate trascorse con un minimo di senso: dove si erano andati a cacciare tutti quei premurosi scassapalle che di continuo si erano inventati un sacco di cavolate sullo starmi vicino, sul poter contare su di loro. Potevo chiamare quando volevo, avevano detto così: un paio di furbacchioni si erano perfino offerti di mollarmi un po’ di grana nel caso le cose si fossero messe male. Eccomi invece con un fesso che dice di essere il protagonista del Padre Nostro che sei nei Cieli, il tale che qualche migliaio d’anni fa era andato da uno zoticone di nome Abramo a mettergli in testa un mucchio di idee strane. Lo stesso che dopo essersi cacciato in un sacco di guai in Galilea, si era, secondo qualcuno, fotocopiato la faccia su uno straccio chiamato Sindone, con un numero imprecisato di fratacchioni che ne rivendicano l’originale. Cominciai a tremare neanche fossi stato preda di dieci delirium tremens nello stesso momento (in effetti i bicchieri vuoti davanti a me erano in numero leggermente superiore ai due o tre che pensavo fino a un istante prima: diciamo che erano almeno otto). Tutti e dieci i tremolii mi passarono non appena i miei occhi fecero croce con i suoi. Non era il solito cretino che vuole rinnovare il messaggio di pace universale da dentro la sua villa di quattro ettari e le nove Rolls Royce posteggiate in un aeroporto adibito a garage. Qualsiasi tipo di persona fosse, non era il solito fasullo. Mi martellava la testa l’assurda, ignobile, impresentabile idea che fosse veramente, c’è da passare per scemi solo a scherzarci su, insomma che fosse veramente Dio. Sarà perché non puzzava di vecchio: ci sono molte chiese in cui sono entrato, che puzzano di vecchio. E’ lo stesso odore che si sente quando entri in un appartamento dove qualcuno è appena morto. Si sente nell’aria, come se le lacrime di quelli che lo hanno pianto, i discorsi di quel tizio quando ancora era in vita, restassero sospesi nell’aria e avessero un odore. Non si tratta di un profumo, come qualcuno col cervello polverizzato vorrebbe far credere: è un odore, né buono né cattivo, di qualcuno che c’era e adesso non c’è più. In alcune chiese si sente, specie in quelle monumentali, grandi e fredde: come se Dio se ne fosse andato tanto tempo fa, e le immagini che restano a fare bella mostra, sull’altare, raffigurate nei dipinti, puzzano di vecchio. In altre chiese no, c’è qualcosa di vivo che ancora respira; in altre ancora si esagera e non sembra neppure di entrare in chiesa, addirittura ti fanno pagare per entrare, come a Disneyland, ma quelli sono casi limite. Ci sono molte persone che parlano di Dio, e puzzano di vecchio: quel tale diceva di essere Dio e non puzzava affatto. Per quanto mi riguarda, avevo sempre pensato a Dio come a un tale troppo indaffarato dietro quintali di scartoffie da sbrigare per potersi occupare di me. Me lo immaginavo dietro una bella scrivania stellata, con una montagna di cartacce, con centinaia di angeli, santi e compagnia bella che chiedevano di parlare. In mezzo a quel casino ogni tanto si trovava a volgere uno sguardo disattento alle povere creature minori del pianeta Terra. Ogni volta che la sera mi ero trovato sul viale delle puttane speravo che fosse troppo occupato per annotare le mie occhiate  furtive  da dietro il volante dell’auto. Mi immaginavo un angelo spione, basso e biondo che diceva:

“Signore, ci sarebbe ancora quel tale che sbircia le battone...”

Ma interveniva S. Francesco, idolo incontrastato delle mie preghiere da bambino:

“Abbiamo cose più importanti per la testa...i terribili Slorg hanno di nuovo sbranato un’altra galassia... Mando l’Arcangelo Gabriele a dirgli di piantarla?” E così via. In altre parole ritenevo che se Dio fosse stato veramente interessato a me, allora si sarebbe preoccupato del fatto che mi sentivo così solo. Non è il caso di piantare la lagna, non ero un disperato. Quasi nessuno lo è, in compenso c’è un sacco di gente che frigna dalla mattina alla sera. Ho sempre pensato che il dolore, così come il genio e la follia, sto parlando di quelli profondi, siano un qualcosa di cui sia difficile parlare. Puoi incontrare un sacco di uomini che si fanno venire i lucciconi cianciando delle mille disgrazie che hanno attraversato loro il cammino, o delle donne che si premurano di farti un racconto particolareggiato di tutte le loro presunte sventure. Nella maggior parte dei casi si tratta di scemenze, per il resto roba che con un minimo di buon senso poteva essere evitata. Quando poi vedi uno che ha i lucciconi davanti a una donna sventurata, allora sono tutte balle, perché vuole solo farsela. E se metti caso è già sua, allora le sta raccontando un sacco i balle lo stesso, perché lui si è fatto un’altra e gli sta raccontando qualche storia di fantascienza che lei fa finta di sciropparsi, solo per poterla recriminare nei minimi particolari al prossimo gonzo che incontrerà. Tutto questo per dire che il mio dolore, il mio genio, la mia follia, erano assolutamente ordinari. Proprio come quei “pazzi della mia compagnia, li devi conoscere, sono proprio fuori di testa” che il vigliacco di turno ti vuole presentare quando sei giù di corda: gente normale, noiosa, senza grandi problemi. Come tutti. Come me, più o meno.  Non c’era nessun motivo particolare per cui io dovessi assistere a un simile miracolo. Dio ha giocato a nascondino con l’essere umano, me compreso, per un sacco di tempo.  Aveva avuto un sacco di occasioni per apparire, e non l’aveva mai fatto. Ma dovevo immaginarmelo che prima o poi  si sarebbe fatto vivo, e proprio il giorno in cui si decide a farmi visita io mi ritrovo a fare la parte della vecchia spugna dei film western, ubriaco al bancone di un bar. Per di più con l’alito da uccidere un cavallo, tanto per restare in tema di sfida all’ok corral. Pensai quindi di darmi una sistemata, quanto meno ai capelli, o a mettermi la camicia dentro ai pantaloni. Ma mentre cercavo di riprendere un po’ di dignità pensai anche che lui  non faceva caso a queste cose. C’erano faccende più importanti. Ma quali?! I miei pensieri erano di sicuro meno stupidi dei miei vestiti. Non perché fossi chissà quale scienziato, ma perché l’ultimo paio di pantaloni che mi sono comprato risale a sei anni fa. Cercai allora, per fare buona impressione, di farmi venire in mente soltanto cose belle. Piene di pace, con bambini che giocano con le loro mamme e volti sorridenti di suore che pregano tutto il giorno.

Ma l’uomo che diceva di essere Dio si sarebbe subito accorto che fingevo, che di solito ho per la testa ben altro. Idem come sopra riguardo al mettersi a piagnucolare per impietosirlo, come fanno i bambini (quando non giocano con le loro maledette mamme): purtroppo ho la dannata sfortuna di non essere pieno di commozione per il dolore altrui e il genere umano in genere. Non sono cattivo, non più di altri, almeno: ma ci sono delle persone che snocciolano lacrime come banditi pallottole, io non sono così. Non so come sono in realtà, ma di certo non sono così.

Perché allora non  provare a stupirlo con qualcosa che mi avrebbe reso speciale ai suoi occhi? Era un’idea idiota, d’accordo. Per inciso- ma perché a volte ci vengono in mente certe idee? E soprattutto perché ci sembrano buone idee?- Comunque, per farla breve, ecco cosa combinai: una volta, se Dio vuole, avevo una bella voce; senza pensarci troppo mi alzai in piedi per cantare “I feel good” di James Brown. Con duemila canzoni di Chiesa esistenti al mondo, TuSeiLaMiaVitaAltroIoNonHo e Requiem di Mozart compresi, mi misi a ragliare un pezzo di un tale noto principalmente per il fatto di essere finito in galera dopo aver picchiato sua moglie come una zampogna, e per aver inciso “Sex Machine” fatto di brutto: accidenti a lui. Poche note gracchiate e poi la voce venne meno. Grande. Vidi che l’uomo che diceva di essere Dio rideva e fui comunque contento. Ma non stava sorridendo a me. Guardava la televisione, alla faccia di Karl Popper e di tutti quelli che dicono che è lo strumento del demonio.

Mi venne in mente una storia della Bibbia che la suora raccontava sempre quando andavo a scuola.

C’era una volta un tale che non voleva che Dio distruggesse una certa città di peccatori. Allora Dio risponde: “Se c’è almeno un numero tot di persone per bene, non la cancello dalla faccia della Terra”. Solo che le persone a posto non ci arrivavano a quel numero, allora il tale si mette  a mercanteggiare con Dio il numero degli uomini buoni, cercando di abbassare sempre di più la quantità. Non ricordavo come andava a finire la storia, rimuginai soltanto sul fatto che forse l’uomo che diceva di essere Dio era eccezionalmente qui in mezzo agli altri per accertarsi che le cose stessero andando bene. E che qualora avesse visto quante merdate vengono commesse ogni giorno, magari gli saltava in testa di distruggere, annientare, polverizzare tutto quanto. Certo la televisione non era il mezzo adatto per salvare la situazione: se c’è una merda in giro si sa, stai sicuro finisce subito in tv. Detti allora un occhiata a cosa stesse facendo tanto ridere l’uomo che diceva di essere Dio. Magari era qualcosa di innocuo, i cartoni animati di Walt Disney.

Tribuna politica. L’uomo che diceva di essere Dio guardava tribuna politica in televisione. Ci credo che rideva. Per distoglierlo dalle catastrofi del telegiornale prossimo venturo gli chiesi se voleva venire con me a vedere cose belle, e lui mi domandò cosa intendessi per cose belle. Gli risposi: “Le persone, e ciò che di bello riescono a creare. Opere d’arte, monumenti. Oppure, poco fuori città c’è un bellissimo zoo...”, ma aggiunsi tra me e me che forse non sarebbe stato affatto contento di vedere i poveri animali rinchiusi nelle gabbie.

“Quali gabbie?” mi chiese, e allora io accorgendomi della gaffe, provai a buttare là dello spirito:

“Le hai appena viste: gli animali da noi vengono vestiti in giacca e cravatta e rimangono chiusi in gabbie televisive a discutere delle leggi del parlamento.”

Non rise.

In effetti fare dello spirito con lo Spirito Santo non era il massimo. Riflettevo su quanto sono profondamente idiota, quando lo vidi che uscito dal bar stava dando un’occhiata alle prime pagine dei giornali, in piedi, davanti all’edicola. Quel cretino di Francese aveva fatto esplodere un’altra bomba atomica in pieno Oceano Pacifico, e io provai in tutti i modi a convogliare la sua attenzione verso qualcos’altro. I fumetti però erano proprio in mezzo alle riviste porno, tanto per cambiare. Non che avessi nulla in contrario, riguardo ai fumetti intendo, ma al momento preferii fargli strategicamente notare il campanile che si ergeva accanto alla chiesa, a metà del viale.

“Pare la lancetta di un gigantesco orologio di pietra, fissa sull’eternità.” dissi cercando di rendere credibile questa rivoltellata con un’espressione del viso alla Robert Mitchum. Forse avrei dovuto fare Spencer Tracy. Finii a malapena la frase,  perché due giovani in canottiera scelsero con tempismo sconcertante proprio quell’istante per portare via la borsa da passeggio a un’indifesa vecchietta con la faccia di merda. L’anziana signora doveva aver iniziato il tragitto da casa sua, più o meno 50 metri, circa quattro ore prima: una testuggine con la borsetta di coccodrillo e il grugno di cinghiale. I due elegantoni che le avevano fotografato il malloppo non erano da meno, si sarebbero meritati sei anni di galera solo per le collane al petto. Ero terrorizzato dall’idea di trovarmi in men che non si dica nel mezzo di un casino mitologico di quello che decideva di non lasciare più possibilità al genere umano: fulmini, saette e tutto il repertorio. La frittata era fatta, ma forse l’uomo che diceva di essere Dio non avrebbe disintegrato tutto quanto perché impietosito dalla vista della povera nonnetta (nonostante la faccia da vecchia filibustiera che si trovava).

“Poveretta!” provai a singhiozzare commosso. Per quanto mi riguardava la vecchia poteva anche schiattare, ma un po’ emozionato lo ero davvero: i grandi alberi incolonnati lungo il marciapiede, la panchina vuota mezza scrostata, le scarpe della gente di passaggio che si allontanava e perfino le automobili posteggiate a sandwich avevano su di me uno strano effetto. “C’è ancora una possibilità” mi dissi “deve esserci per forza.”

Ma quella vecchia manigolda si rialzò subito con la forza di un leone, bestemmiò più volte, poi in una marea di parolacce e imprecazioni si lanciò all’inseguimento dei due teppisti. Pareva uscita fuori da un telefilm d’azione, col volto sfigurato da una smorfia di rabbia, il vestito strappato e annerito per la caduta sull’asfalto: per niente al mondo avrei voluto confrontarmi con i suoi bicipiti. So di cosa sto parlando: quelle erano le braccia sformate di una donna che ha trascinato per anni le borse della spesa; tre, anche quattro sacchetti per braccio due volte la settimana, per sfamare il marito e quel branco di sciacalli che si ostina a chiamare figli. I capelli scompigliati erano ormai ridotti a una nuvola bianca e grigia, dalla quale scendeva una  pioggia di sudore plumbea come i suoi pensieri. Ci scappò pure una gomitata nello stomaco all’uomo che diceva di essere Dio, che si volse verso di me, facendomi sentire terribilmente in colpa. Franò a terra, inesorabilmente, con lo stomaco piegato dalla gomitata e la milza finita in tasca. Era caduto e io lo aiutai a rialzarsi, o almeno ci provai: infatti una minigonna ambulante travestita da ragazza catturò la mia attenzione. Sventole così passano una volta ogni quattro mesi: mollai la presa su di lui e lo feci scivolare a terra di nuovo: bravo. Rimasi a bocca  aperta, con quello col culo a terra e la mia faccia fotografata sulle chiappe della torpediniera. Ero un disastro, un completo disastro. Frattanto quello era tornato in piedi, mentre io tenevo gli occhi abbassati ripensando con indicibile senso di vergogna a quello che avevo combinato. Probabilmente il mondo era nelle mie mani e io me lo stavo lasciando sfuggire neanche si fosse trattato di una bottiglia d’olio sigillata male. Non che senza tale responsabilità mi sarei comportato molto meglio, ma nonostante gli otto (diciamo undici, dodici, va’) bicchieri che avevo mandato giù, pensavo di meritare un’altra possibilità. Che non venne, perché l’uomo che diceva di essere Dio era a terra. Per la Terza volta.

Non era stato aggredito per fortuna, era solo chino a parlare con dei bambini. Ma certo, i bambini! I cari, teneri, adorabili bimbi: la speranza per il futuro, i bastoni della vecchiaia, lasciate che i pargoli vengano a me, è naturale che parlasse con loro. Mi avvicinai per sentire cosa dicevano. I bambini litigavano tra di loro, che il diavolo se li porti! Di fronte a lui però i due testoni ebbero la buona idea di piantarla e di fare la pace. Credo che neanche se li avessi addestrati per dieci mesi di fila avrebbero potuto sembrare più convincenti. Sorridevano, e le loro bocche semi spalancate mi fecero sperare che non tutto fosse perduto. Uno dei due aveva un paio d’occhiali e un ciuffo cretino che contribuivano a rendere la sua espressione non esattamente da falco. L’altro era un po’ meglio; un po’ grassoccio forse, con una maglietta blu a strisce rosse orizzontali tendente all’orrendo, ma per il resto passabile. I loro visi erano del colore che caratterizza tutti i bambini che non sono a spasso coi genitori: non potresti dire che sono sporchi, anche se la pelle è ben lontana dall’essere pulita. Tutti quelli che si sono trovati almeno una volta nella vita a giocare in una strada di periferia sanno di che tintura sto parlando. Si ha addosso il colore del catrame dell’asfalto, della polvere sotto la suola delle scarpe da ginnastica; del pallone che si è scalciato alla morte, degli scalini su cui ci si siede, davanti ai portoni chiusi delle case. Assomigliavo così poco a quei due bambini, e non ero somigliante neanche un po’ con quel grissino che ero stato da piccolo. Mi resi conto in quell’istante che avevo trascorso un sacco di tempo con un tale che diceva di essere Dio e non gli avevo fatto neppure una domanda. Il suo viso era sereno, le piccole e violente emozioni di chi istanti prima si erano cancellate. Ma i suoi occhi profondi erano comunque difficile da guardare, sembravano volti verso un altro tempo: da qualche parte, lì davanti ai suoi occhi, vedeva qualcosa di cui essere lieto. Mi decisi così a chiedere, trepidante, visti i casini successi:

“Ti aspettavi di peggio, dopotutto?!” Balbettavo come un mentecatto, avevo ancora fissa in testa l’idea che potesse da un momento all’altro fare fuori tutto. Non scorgevo alcun lampo di follia nei suoi occhi, voglio essere chiaro. Ma nel suo volto vi erano delle ombre, delle pieghe in un’altra persona avresti scambiato per tristezza: quelli che fanno i disegni dei libri di catechismo andrebbero gettati in galera, con le loro immagini di Cristo biondo, sorridente e  con gli occhi azzurri. Chiesi ancora: “Avrai pietà di noi? Oppure disintegrerai la città?!”

“Disintegrare?” rispose sorpreso. “E perché dovrei fare una cosa simile?!”.

Girò l’angolo e come un fantasma, in una nuvola di (alcool) fumo, sparì. Senza curarsi di me, senza sentire il bisogno di aggiungere altro.

Quella fu l’ultima volta che vidi l’uomo che diceva di essere Dio. Sentivo il cuore che scoppiava, vuoi per l’emozione o vuoi per l’alcool; cresceva dentro di me un senso d’incredulità misto a impotenza, la sensazione di essere stato preso in giro da una sbronza o peggio: da qualcuno che mi amava, che mi conosceva senza che gli raccontassi nulla di me. Che sapeva benissimo dall’inizio come sarebbe andata a finire. L’impressione di sentirsi messi a nudo, come soltanto una grande sbronza o una grande verità possono fare. Ripensai a quella storia della Bibbia raccontatami dalla suora, e ricordai come terminava: alla fine Dio non distrusse quella città.

 

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