Cercai
quindi qualcosa col pensiero che valesse davvero la pena di abbinare al Nome
dei Nomi. Di solito si scomoda Zio Tobia e tutta la sua maledetta fattoria
degli animali: serpente, scimmione, lepre, castoro; ma no uno valeva l’altro:
stregone, pistolero. Risi a quella che ritenni un’insuperabile sequela di
battute, che nessuno tranne me poteva apprezzare nel suo sconfinato umorismo.
Poi la risata mi si gelò nella bocca piena d’alcool. Il tale che era seduto
accanto a me mi aveva lanciato un’occhiata che mi aveva ammutolito. Nessun
rimprovero, ci mancherebbe: lo avrei mandato all’inferno, e l’avrei combinata
bella. Più che seduto era ripiegato come un burattino magro e malaticcio su
quel seggiolino da asilo infantile. Dava l’idea di aver camminato settimane
sotto il sole a picco: uno di questi autostoppisti con l’aria da illuminato che
vanno in giro per l’Europa in cerca di stessi, con sulle spalle uno zaino pieno
di ogni inutile cianfrusaglia esistente al mondo. Ma non era il solito turista
balordo. C’era qualcosa nel suo silenzio che ti portava a rendergli rispetto,
mi sarei tolto il cappello se oggi usasse ancora metterlo. Ci sono persone che
ti appaiono valide, quando le incontri. Intelligenti, credo sia quella la
parola. Non so cosa c’entri capirci qualcosa di algebra o trigonometria
coll’evitare di avere una faccia da fesso, però dev’essere così. “Guarda quel
tale: quello sì che ha una faccia intelligente!” E’ inevitabile che chi
distingue il mondo in stupidi e intelligenti si riservi un posto nel riservato
club dei furbacchioni. Mai uno che ti dica: “Il mondo si divide in persone
capaci e mentecatti. Io purtroppo sono un cretino.” Mai una volta. E’ sempre:
“Quello sì che ha una testa che funziona.” E intanto con la faccia ti dice:
“Ecco uno dei nostri.” Il tale che mi trovavo davanti non mi fece
quest’impressione, e una volta tanto la mia cretineria non c’entrava. Non mi
sentivo affatto uno dei suoi. Lui era diverso. Come se si fosse trattato di una
bella sventolona con la scollatura della madonna, gli chiesi chi era. Lui mi
dette una risposta che non si sente tutti i giorni, almeno da uno sano di
testa.
Quando
gli feci la domanda, mi rispose di essere Dio. Non la madonna, ma ci ero andato
vicino. Il videogame dentro la mia testa fece sparare il coniglio
all’impazzata, contro tutto e tutti. Lo strano fu che non mi passò nella mente
neppure per un istante che si stesse prendendo gioco di me. C’è la fila di
quelli che mio prendono per il culo: quando qualcuno si mette in testa di
cominciare a sfottere, gli raccomando di mettersi in coda. Ma il modo con cui
lo disse mi portò a credere che fosse vero. Punto e basta. Per la verità non
pensai a DioDio, quanto piuttosto a uno di questi santoni che possono stare
intere settimane senza mangiare e senza dormire, che si cibano soltanto della
Luce del Cosmo. Fatto sta che mi scusai con lui per le bestemmie che avevo
pensato e lui fece cenno come a dirmi “non importa”. O ero fesso io, o era
andato di testa lui, delle due l’una.
Un
improvviso terrore mi assalì, sentii il pallone da calcio della follia bello
gonfio tra le mie dita, pronto a scoppiarmi in faccia. Che fine avevano fatto
le giornate trascorse con un minimo di senso: dove si erano andati a cacciare
tutti quei premurosi scassapalle che di continuo si erano inventati un sacco di
cavolate sullo starmi vicino, sul poter contare su di loro. Potevo chiamare
quando volevo, avevano detto così: un paio di furbacchioni si erano perfino offerti
di mollarmi un po’ di grana nel caso le cose si fossero messe male. Eccomi
invece con un fesso che dice di essere il protagonista del Padre Nostro che sei
nei Cieli, il tale che qualche migliaio d’anni fa era andato da uno zoticone di
nome Abramo a mettergli in testa un mucchio di idee strane. Lo stesso che dopo
essersi cacciato in un sacco di guai in Galilea, si era, secondo qualcuno,
fotocopiato la faccia su uno straccio chiamato Sindone, con un numero
imprecisato di fratacchioni che ne rivendicano l’originale. Cominciai a tremare
neanche fossi stato preda di dieci delirium tremens nello stesso momento (in
effetti i bicchieri vuoti davanti a me erano in numero leggermente superiore ai
due o tre che pensavo fino a un istante prima: diciamo che erano almeno otto).
Tutti e dieci i tremolii mi passarono non appena i miei occhi fecero croce con
i suoi. Non era il solito cretino che vuole rinnovare il messaggio di pace
universale da dentro la sua villa di quattro ettari e le nove Rolls Royce
posteggiate in un aeroporto adibito a garage. Qualsiasi tipo di persona fosse,
non era il solito fasullo. Mi martellava la testa l’assurda, ignobile,
impresentabile idea che fosse veramente, c’è da passare per scemi solo a
scherzarci su, insomma che fosse veramente Dio. Sarà perché non puzzava di
vecchio: ci sono molte chiese in cui sono entrato, che puzzano di vecchio. E’
lo stesso odore che si sente quando entri in un appartamento dove qualcuno è
appena morto. Si sente nell’aria, come se le lacrime di quelli che lo hanno
pianto, i discorsi di quel tizio quando ancora era in vita, restassero sospesi
nell’aria e avessero un odore. Non si tratta di un profumo, come qualcuno col
cervello polverizzato vorrebbe far credere: è un odore, né buono né cattivo, di
qualcuno che c’era e adesso non c’è più. In alcune chiese si sente, specie in
quelle monumentali, grandi e fredde: come se Dio se ne fosse andato tanto tempo
fa, e le immagini che restano a fare bella mostra, sull’altare, raffigurate nei
dipinti, puzzano di vecchio. In altre chiese no, c’è qualcosa di vivo che
ancora respira; in altre ancora si esagera e non sembra neppure di entrare in
chiesa, addirittura ti fanno pagare per entrare, come a Disneyland, ma quelli
sono casi limite. Ci sono molte persone che parlano di Dio, e puzzano di
vecchio: quel tale diceva di essere Dio e non puzzava affatto. Per quanto mi
riguarda, avevo sempre pensato a Dio come a un tale troppo indaffarato dietro
quintali di scartoffie da sbrigare per potersi occupare di me. Me lo immaginavo
dietro una bella scrivania stellata, con una montagna di cartacce, con
centinaia di angeli, santi e compagnia bella che chiedevano di parlare. In
mezzo a quel casino ogni tanto si trovava a volgere uno sguardo disattento alle
povere creature minori del pianeta Terra. Ogni volta che la sera mi ero trovato
sul viale delle puttane speravo che fosse troppo occupato per annotare le mie
occhiate furtive da dietro il volante dell’auto. Mi immaginavo
un angelo spione, basso e biondo che diceva:
“Signore,
ci sarebbe ancora quel tale che sbircia le battone...”
Ma
interveniva S. Francesco, idolo incontrastato delle mie preghiere da bambino:
“Abbiamo
cose più importanti per la testa...i terribili Slorg hanno di nuovo sbranato
un’altra galassia... Mando l’Arcangelo Gabriele a dirgli di piantarla?” E così
via. In altre parole ritenevo che se Dio fosse stato veramente interessato a
me, allora si sarebbe preoccupato del fatto che mi sentivo così solo. Non è il
caso di piantare la lagna, non ero un disperato. Quasi nessuno lo è, in
compenso c’è un sacco di gente che frigna dalla mattina alla sera. Ho sempre
pensato che il dolore, così come il genio e la follia, sto parlando di quelli
profondi, siano un qualcosa di cui sia difficile parlare. Puoi incontrare un
sacco di uomini che si fanno venire i lucciconi cianciando delle mille
disgrazie che hanno attraversato loro il cammino, o delle donne che si
premurano di farti un racconto particolareggiato di tutte le loro presunte
sventure. Nella maggior parte dei casi si tratta di scemenze, per il resto roba
che con un minimo di buon senso poteva essere evitata. Quando poi vedi uno che
ha i lucciconi davanti a una donna sventurata, allora sono tutte balle, perché
vuole solo farsela. E se metti caso è già sua, allora le sta raccontando un sacco
i balle lo stesso, perché lui si è fatto un’altra e gli sta raccontando qualche
storia di fantascienza che lei fa finta di sciropparsi, solo per poterla
recriminare nei minimi particolari al prossimo gonzo che incontrerà. Tutto
questo per dire che il mio dolore, il mio genio, la mia follia, erano
assolutamente ordinari. Proprio come quei “pazzi della mia compagnia, li devi
conoscere, sono proprio fuori di testa” che il vigliacco di turno ti vuole
presentare quando sei giù di corda: gente normale, noiosa, senza grandi
problemi. Come tutti. Come me, più o meno.
Non c’era nessun motivo particolare per cui io dovessi assistere a un
simile miracolo. Dio ha giocato a nascondino con l’essere umano, me compreso,
per un sacco di tempo. Aveva avuto un
sacco di occasioni per apparire, e non l’aveva mai fatto. Ma dovevo
immaginarmelo che prima o poi si sarebbe
fatto vivo, e proprio il giorno in cui si decide a farmi visita io mi ritrovo a
fare la parte della vecchia spugna dei film western, ubriaco al bancone di un
bar. Per di più con l’alito da uccidere un cavallo, tanto per restare in tema
di sfida all’ok corral. Pensai quindi di darmi una sistemata, quanto meno ai
capelli, o a mettermi la camicia dentro ai pantaloni. Ma mentre cercavo di
riprendere un po’ di dignità pensai anche che lui non faceva caso a queste cose. C’erano
faccende più importanti. Ma quali?! I miei pensieri erano di sicuro meno
stupidi dei miei vestiti. Non perché fossi chissà quale scienziato, ma perché l’ultimo
paio di pantaloni che mi sono comprato risale a sei anni fa. Cercai allora, per
fare buona impressione, di farmi venire in mente soltanto cose belle. Piene di
pace, con bambini che giocano con le loro mamme e volti sorridenti di suore che
pregano tutto il giorno.
Ma
l’uomo che diceva di essere Dio si sarebbe subito accorto che fingevo, che di
solito ho per la testa ben altro. Idem come sopra riguardo al mettersi a
piagnucolare per impietosirlo, come fanno i bambini (quando non giocano con le
loro maledette mamme): purtroppo ho la dannata sfortuna di non essere pieno di
commozione per il dolore altrui e il genere umano in genere. Non sono cattivo,
non più di altri, almeno: ma ci sono delle persone che snocciolano lacrime come
banditi pallottole, io non sono così. Non so come sono in realtà, ma di certo
non sono così.
Perché
allora non provare a stupirlo con
qualcosa che mi avrebbe reso speciale ai suoi occhi? Era un’idea idiota,
d’accordo. Per inciso- ma perché a volte ci vengono in mente certe idee? E
soprattutto perché ci sembrano buone idee?- Comunque, per farla breve, ecco
cosa combinai: una volta, se Dio vuole, avevo una bella voce; senza pensarci
troppo mi alzai in piedi per cantare “I feel good” di James Brown. Con duemila
canzoni di Chiesa esistenti al mondo, TuSeiLaMiaVitaAltroIoNonHo e Requiem di
Mozart compresi, mi misi a ragliare un pezzo di un tale noto principalmente per
il fatto di essere finito in galera dopo aver picchiato sua moglie come una
zampogna, e per aver inciso “Sex Machine” fatto di brutto: accidenti a lui.
Poche note gracchiate e poi la voce venne meno. Grande. Vidi che l’uomo che
diceva di essere Dio rideva e fui comunque contento. Ma non stava sorridendo a
me. Guardava la televisione, alla faccia di Karl Popper e di tutti quelli che
dicono che è lo strumento del demonio.
Mi
venne in mente una storia della Bibbia che la suora raccontava sempre quando
andavo a scuola.
C’era
una volta un tale che non voleva che Dio distruggesse una certa città di
peccatori. Allora Dio risponde: “Se c’è almeno un numero tot di persone per
bene, non la cancello dalla faccia della Terra”. Solo che le persone a posto
non ci arrivavano a quel numero, allora il tale si mette a mercanteggiare con Dio il numero degli
uomini buoni, cercando di abbassare sempre di più la quantità. Non ricordavo
come andava a finire la storia, rimuginai soltanto sul fatto che forse l’uomo
che diceva di essere Dio era eccezionalmente qui in mezzo agli altri per
accertarsi che le cose stessero andando bene. E che qualora avesse visto quante
merdate vengono commesse ogni giorno, magari gli saltava in testa di
distruggere, annientare, polverizzare tutto quanto. Certo la televisione non
era il mezzo adatto per salvare la situazione: se c’è una merda in giro si sa,
stai sicuro finisce subito in tv. Detti allora un occhiata a cosa stesse
facendo tanto ridere l’uomo che diceva di essere Dio. Magari era qualcosa di
innocuo, i cartoni animati di Walt Disney.
Tribuna
politica. L’uomo che diceva di essere Dio guardava tribuna politica in
televisione. Ci credo che rideva. Per distoglierlo dalle catastrofi del
telegiornale prossimo venturo gli chiesi se voleva venire con me a vedere cose
belle, e lui mi domandò cosa intendessi per cose belle. Gli risposi: “Le
persone, e ciò che di bello riescono a creare. Opere d’arte, monumenti. Oppure,
poco fuori città c’è un bellissimo zoo...”, ma aggiunsi tra me e me che forse
non sarebbe stato affatto contento di vedere i poveri animali rinchiusi nelle
gabbie.
“Quali
gabbie?” mi chiese, e allora io accorgendomi della gaffe, provai a buttare là
dello spirito:
“Le
hai appena viste: gli animali da noi vengono vestiti in giacca e cravatta e
rimangono chiusi in gabbie televisive a discutere delle leggi del parlamento.”
Non
rise.
In
effetti fare dello spirito con lo Spirito Santo non era il massimo. Riflettevo
su quanto sono profondamente idiota, quando lo vidi che uscito dal bar stava
dando un’occhiata alle prime pagine dei giornali, in piedi, davanti
all’edicola. Quel cretino di Francese aveva fatto esplodere un’altra bomba
atomica in pieno Oceano Pacifico, e io provai in tutti i modi a convogliare la
sua attenzione verso qualcos’altro. I fumetti però erano proprio in mezzo alle
riviste porno, tanto per cambiare. Non che avessi nulla in contrario, riguardo
ai fumetti intendo, ma al momento preferii fargli strategicamente notare il
campanile che si ergeva accanto alla chiesa, a metà del viale.
“Pare
la lancetta di un gigantesco orologio di pietra, fissa sull’eternità.” dissi
cercando di rendere credibile questa rivoltellata con un’espressione del viso
alla Robert Mitchum. Forse avrei dovuto fare Spencer Tracy. Finii a malapena la
frase, perché due giovani in canottiera
scelsero con tempismo sconcertante proprio quell’istante per portare via la
borsa da passeggio a un’indifesa vecchietta con la faccia di merda. L’anziana
signora doveva aver iniziato il tragitto da casa sua, più o meno 50 metri , circa quattro
ore prima: una testuggine con la borsetta di coccodrillo e il grugno di
cinghiale. I due elegantoni che le avevano fotografato il malloppo non erano da
meno, si sarebbero meritati sei anni di galera solo per le collane al petto.
Ero terrorizzato dall’idea di trovarmi in men che non si dica nel mezzo di un
casino mitologico di quello che decideva di non lasciare più possibilità al
genere umano: fulmini, saette e tutto il repertorio. La frittata era fatta, ma
forse l’uomo che diceva di essere Dio non avrebbe disintegrato tutto quanto
perché impietosito dalla vista della povera nonnetta (nonostante la faccia da
vecchia filibustiera che si trovava).
“Poveretta!”
provai a singhiozzare commosso. Per quanto mi riguardava la vecchia poteva
anche schiattare, ma un po’ emozionato lo ero davvero: i grandi alberi
incolonnati lungo il marciapiede, la panchina vuota mezza scrostata, le scarpe
della gente di passaggio che si allontanava e perfino le automobili posteggiate
a sandwich avevano su di me uno strano effetto. “C’è ancora una possibilità” mi
dissi “deve esserci per forza.”
Ma
quella vecchia manigolda si rialzò subito con la forza di un leone, bestemmiò
più volte, poi in una marea di parolacce e imprecazioni si lanciò
all’inseguimento dei due teppisti. Pareva uscita fuori da un telefilm d’azione,
col volto sfigurato da una smorfia di rabbia, il vestito strappato e annerito
per la caduta sull’asfalto: per niente al mondo avrei voluto confrontarmi con i
suoi bicipiti. So di cosa sto parlando: quelle erano le braccia sformate di una
donna che ha trascinato per anni le borse della spesa; tre, anche quattro
sacchetti per braccio due volte la settimana, per sfamare il marito e quel
branco di sciacalli che si ostina a chiamare figli. I capelli scompigliati
erano ormai ridotti a una nuvola bianca e grigia, dalla quale scendeva una pioggia di sudore plumbea come i suoi
pensieri. Ci scappò pure una gomitata nello stomaco all’uomo che diceva di
essere Dio, che si volse verso di me, facendomi sentire terribilmente in colpa.
Franò a terra, inesorabilmente, con lo stomaco piegato dalla gomitata e la
milza finita in tasca. Era caduto e io lo aiutai a rialzarsi, o almeno ci provai:
infatti una minigonna ambulante travestita da ragazza catturò la mia
attenzione. Sventole così passano una volta ogni quattro mesi: mollai la presa
su di lui e lo feci scivolare a terra di nuovo: bravo. Rimasi a bocca aperta, con quello col culo a terra e la mia
faccia fotografata sulle chiappe della torpediniera. Ero un disastro, un
completo disastro. Frattanto quello era tornato in piedi, mentre io tenevo gli
occhi abbassati ripensando con indicibile senso di vergogna a quello che avevo
combinato. Probabilmente il mondo era nelle mie mani e io me lo stavo lasciando
sfuggire neanche si fosse trattato di una bottiglia d’olio sigillata male. Non
che senza tale responsabilità mi sarei comportato molto meglio, ma nonostante
gli otto (diciamo undici, dodici, va’) bicchieri che avevo mandato giù, pensavo
di meritare un’altra possibilità. Che non venne, perché l’uomo che diceva di
essere Dio era a terra. Per la Terza volta.
Non
era stato aggredito per fortuna, era solo chino a parlare con dei bambini. Ma
certo, i bambini! I cari, teneri, adorabili bimbi: la speranza per il futuro, i
bastoni della vecchiaia, lasciate che i pargoli vengano a me, è naturale che
parlasse con loro. Mi avvicinai per sentire cosa dicevano. I bambini litigavano
tra di loro, che il diavolo se li porti! Di fronte a lui però i due testoni
ebbero la buona idea di piantarla e di fare la pace. Credo che neanche se li
avessi addestrati per dieci mesi di fila avrebbero potuto sembrare più
convincenti. Sorridevano, e le loro bocche semi spalancate mi fecero sperare
che non tutto fosse perduto. Uno dei due aveva un paio d’occhiali e un ciuffo
cretino che contribuivano a rendere la sua espressione non esattamente da
falco. L’altro era un po’ meglio; un po’ grassoccio forse, con una maglietta
blu a strisce rosse orizzontali tendente all’orrendo, ma per il resto
passabile. I loro visi erano del colore che caratterizza tutti i bambini che
non sono a spasso coi genitori: non potresti dire che sono sporchi, anche se la
pelle è ben lontana dall’essere pulita. Tutti quelli che si sono trovati almeno
una volta nella vita a giocare in una strada di periferia sanno di che tintura
sto parlando. Si ha addosso il colore del catrame dell’asfalto, della polvere
sotto la suola delle scarpe da ginnastica; del pallone che si è scalciato alla
morte, degli scalini su cui ci si siede, davanti ai portoni chiusi delle case.
Assomigliavo così poco a quei due bambini, e non ero somigliante neanche un po’
con quel grissino che ero stato da piccolo. Mi resi conto in quell’istante che
avevo trascorso un sacco di tempo con un tale che diceva di essere Dio e non
gli avevo fatto neppure una domanda. Il suo viso era sereno, le piccole e
violente emozioni di chi istanti prima si erano cancellate. Ma i suoi occhi
profondi erano comunque difficile da guardare, sembravano volti verso un altro
tempo: da qualche parte, lì davanti ai suoi occhi, vedeva qualcosa di cui
essere lieto. Mi decisi così a chiedere, trepidante, visti i casini successi:
“Ti
aspettavi di peggio, dopotutto?!” Balbettavo come un mentecatto, avevo ancora
fissa in testa l’idea che potesse da un momento all’altro fare fuori tutto. Non
scorgevo alcun lampo di follia nei suoi occhi, voglio essere chiaro. Ma nel suo
volto vi erano delle ombre, delle pieghe in un’altra persona avresti scambiato
per tristezza: quelli che fanno i disegni dei libri di catechismo andrebbero
gettati in galera, con le loro immagini di Cristo biondo, sorridente e con gli occhi azzurri. Chiesi ancora: “Avrai
pietà di noi? Oppure disintegrerai la città?!”
“Disintegrare?”
rispose sorpreso. “E perché dovrei fare una cosa simile?!”.
Girò
l’angolo e come un fantasma, in una nuvola di (alcool) fumo, sparì. Senza
curarsi di me, senza sentire il bisogno di aggiungere altro.
Quella
fu l’ultima volta che vidi l’uomo che diceva di essere Dio. Sentivo il cuore
che scoppiava, vuoi per l’emozione o vuoi per l’alcool; cresceva dentro di me
un senso d’incredulità misto a impotenza, la sensazione di essere stato preso
in giro da una sbronza o peggio: da qualcuno che mi amava, che mi conosceva
senza che gli raccontassi nulla di me. Che sapeva benissimo dall’inizio come
sarebbe andata a finire. L’impressione di sentirsi messi a nudo, come soltanto
una grande sbronza o una grande verità possono fare. Ripensai a quella storia
della Bibbia raccontatami dalla suora, e ricordai come terminava: alla fine Dio
non distrusse quella città.
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