venerdì 5 febbraio 2016

FANTASMA di Sabrina Carollo


E tu chi cazzo saresti?”

“Eh, che modi! Calmati!”

 
Un momento. Rewind - o skip back, a voler essere moderni.

 
Interno di appartamento, buio.

 
Un uomo entra nella stanza. A tentoni trova l’interruttore di una malconcia abat jour appoggiata in terra. Una piccola luce giallastra si rovescia sulla polvere del pavimento, sul tavolo con due sedie sistemato in un angolo, sulla… cos’è, pare una libreria, laggiù nell’angolo. Sulla televisione spenta e su una poltrona di foggia antica, con il poggiapiedi in stoffa del medesimo colore davanti. E un paio di piedi sopra. E, attaccate ai piedi, due caviglie (una per ciascun piede). E sopra le caviglie, due gambe. Poi un tronco, braccia testa, insomma un tizio.

Seduto.

In poltrona.

 
A questo punto, quello che ha acceso la luce: “E tu chi cazzo saresti?”

Quello in poltrona risponde: “Eh, che modi! Calmati!”

 
Oh, ok ora ci siamo.

 
“No che non mi calmo, sei in casa mia! Come sei entrato? Chiamo la polizia!”

 
Allora, la prima riflessione è: si reagisce così di fronte a uno sconosciuto seduto in poltrona a casa tua? Non si urla? Saremo mica in Inghilterra?

La risposta è no, non è aplomb britannico. Il contesto aiuta a capire meglio: la casa è evidentemente trascurata, da rubare non c’è nulla. Anche un fifone capirebbe al volo che un ladro non si accomoda in poltrona aspettando il legittimo inquilino.

 
Stai calmo, macché polizia. Al limite per portare via te, visto che io sono qui da prima”

Ma che ragionamento è? Allora uno non può uscire mai di casa che altrimenti uno si infila al suo posto? Allora prima che entrassi tu, prima di uscire, c’ero ancora io!”

“No, io intendo prima prima”

“Mi sembra di essere in una canzone di Jannacci. O in una rappresentazione di Pinter. Mi dici chi sei? O te ne vai direttamente, va bene lo stesso anche senza dirmi niente”

“Che modi sgarbati. Non me ne vado affatto. Guarda in che condizioni tieni questa casa. Ma pulisci ogni tanto? C’è polvere ovunque, e l’unica luce che funziona è quella lì per terra. Che fine ha fatto il lampadario di murano?”

“Certo che pulisco. Solo che ultimamente ho avuto da fare. Ma poi che vuoi! Ti pare che sto a discutere con un intruso probabilmente psicopatico di come tengo in ordine casa mia? E leva quelle scarpacce dal mio poggiapiedi!”

“Dimmi dove hai messo il lampadario. L’hai rotto eh? Ci scommetto, l’hai rotto”

“Non l’ho rotto, l’ho messo in cantina. Non mi piaceva, con tutti quei gingilli appesi. Ma tu cosa ne sai del lampadario? Ci conosciamo? Vieni alla luce, fatti vedere bene in faccia”

 
Lo sconosciuto si era raddrizzato nella poltrona e aveva tolto ubbidiente i propri piedi dall’appoggio. Osservava scettico il secondo entrato in scena, che a sua volta lo guardava tra il perplesso e l’arrabbiato, le mani strette a pugno, quasi inchiodato alle assi di legno vicino al lume.

 
Ora, congeliamo la scena così, giriamo l’immagine sottosopra (180°) e facciamo cadere dalle tasche dei due i rispettivi documenti.

(scuoti)

(ancora)

(più forte)

 
Ne cade uno. Uno solo. Lì in mezzo. C’è scritto:CI 94733821L

Filippo Rossi

Nato il 21 maggio 1985
 
 
 
Ma come non hai visto da che tasca è caduto!
 
“Rigirate la scena per favore, mi va il sangue alla testa!”
 
Zacchete.
 
“La mia carta di identità. Cosa ci fa in terra?”
“Sbagli, è la mia” dice alzandosi di scatto lo sconosciuto.
“Ma cosa dici? Non vedi? C’è scritto il mio nome”
“Guarda che quello è il mio, di nome”
“Insomma, ma cosa vuoi? Sei entrato in casa mia senza che nessuno te lo abbia chiesto, ora vuoi rubarmi anche la carta di identità?”
“Ma stai zitto che hai pure un pessimo gusto. Hai tolto quel lampadario che era bellissimo”
“Ora basta. Vattene”
“Non posso”
“Sarebbe a dire scusa?”
“Che non posso andarmene. Sono inchiodato qui, caro te”
“Caro me lo dici a qualcun altro. Vattene che nessuno ti trattiene”
“E intanto mi tieni per mano. Guarda che sei strano”
“Non ti sto tenendo per mano, sei tu che tieni me. E lascia!”
Con uno strattone i due si allontanano.
“Non fare così. Dai, vieni qui, parliamone”
“Parliamone è da sempre un preludio a qualcosa di doloroso”
“Hai paura delle parole?”
“Certo che ne ho. Tu no? Sono le armi più spietate che conosco”
“Esistono anche le parole di consolazione”
“Le parole che conosco fanno male. Dicono cose che non voglio sentire. Preferisco il silenzio, preferisco non sapere. Preferisco arrabbiarmi, volere, godere, decidere, possedere, ridere, ottenere, vincere e soprattutto non capire”
“Allora non parlarmi. Ma guardami”
Filippo Rossi emette un profondo respiro. Alza lo sguardo e lo infila in quello di Filippo Rossi. Si osservano a lungo. Stessi capelli, stesse spalle, stessa forma del naso. Stessi canini leggermente pronunciati. Stessa giacca.
“A me veste meglio”
“Hai solo fatto più sport”
Filippo Rossi allunga la mano per toccare Filippo Rossi. Le dita attraversano l’immagine come fosse una proiezione. Un fantasma.
 
 
 

 

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