domenica 4 ottobre 2015

FRATELLI di Andrea Mitri


La mattina che disperdemmo le sue ceneri in mare, c’era un vento talmente forte, che non potemmo stabilire il punto esatto in cui i resti del suo corpo si erano mescolati alle onde.

Ma d’altra parte , saperlo, non avrebbe avuto troppa importanza, dal momento che qui nessuno si è mai fatto disperdere nel mare Tirreno e quindi non correremo mai il rischio di gettare , nelle ricorrenze, un mazzo di fiori a qualcun altro.

Mamma avrebbe voluto seppellirlo nella tomba di famiglia, alle porte del paese; ma c’era il pericolo di assistere ad un continuo pellegrinaggio di ragazze e ragazzi dai capelli colorati, che avrebbero finito con il disturbare l’eterno riposo di nonno Alfonso.

E comunque, non sarebbe stato desiderio di mio fratello, marcire nella terra che si era sempre rifiutato di coltivare.

Così, anche se già dai primi giorni di estate abbiamo lo stesso assistito a continui arrivi di macchine e moto piene di giovani fans, ci è rimasta l’illusione , quantomeno visiva, che magari erano arrivati lì solo per fermarsi ad osservare le onde che si infrangono  violentemente contro il dirupo, nell’attesa di veder apparire, al calare della marea, i due bianchi scogli per cui questa piccola parte del mondo era finora appena appena conosciuta.

Narra infatti la nostra tradizione popolare, che quelle due pietre candide e levigate, apparentemente poggiate sulla sabbia, siano le lacrime di una povera pastora sedotta ed abbandonata da Mercurio e che Nettuno, impietosito , le abbia solidificate per sempre.

Secondo mio fratello Frankie quelle invece erano le tette del dio Nettuno stesso, perché il dio delle acque doveva essere per forza transessuale, altrimenti la  scienza non avrebbe intuito che è dal mare che deriva la vita umana.

Mio fratello era fuori di testa.

Si presentava sul palco vestito di volta in volta da odalisca, suora, colf di colore e altro, ed il suo pubblico, vestito esattamente come lui era vestito la volta precedente, applaudiva, spintonava, strillava.

Al paese non ha mai cantato. E sinceramente né il parroco né il sindaco glielo avrebbero mai chiesto.

L’ultima volta che lo abbiamo visto qui è stato per il compleanno della mamma, sei mesi prima che la cosa accadesse. Aveva i capelli rasati a zero, con un piccolo ciuffo azzurro sulla fronte, ed una spilla da balia infilata nel lobo dell’orecchio, che mamma aveva cercato di togliergli non appena si era addormentato.

Il suo disco era primo in classifica, le radio lo trasmettevano in continuazione. Diceva” uccidi il cane che è in te e non dovrai più nutrirti d’ossa, libera il gabbiano che è in te e ti nutrirai del mare”.

Mentre di nascosto a mamma la ascoltavo, pensavo che Whiskey, il nostro bastardo di pastore maremmano, era un cane felice di stare a guardia della nostra casa e che i gabbiani oramai svolazzavano alla ricerca di cibo più verso le discariche dell’interno che sull’azzurro del mare: ma non sapevo scrivere canzoni, né parlare a mio fratello. E portavo i capelli lunghi.

Eppure ho molto amato Frankie: la sua incoscienza, la sua genialità, la sua capacità di riuscire a farsi voler bene da tutti, sempre e comunque, anche dopo averti distrutto con le più terribili accuse.

Ricordo una cena di Natale di tre anni fa, quando lui si presentò in ritardo, accompagnato da quel pittore inglese che dipingeva solo sulla carta igienica, che doveva essere il suo amante; e mamma li accolse comunque con il sorriso sulle labbra e le fette di roastbeef ancora tenere.

Trascorremmo una vigilia insolitamente serena e a fine serata il pittore voleva che mamma gli desse la ricetta della torta di mele che avevamo mangiato.

Frankie saltò su  urlando , in un inglese abbastanza approssimativo , che avevano abbastanza soldi per comperarsi tutte le pasticcerie di Londra e che non c’era alcun bisogno di quella fottutissima ricetta.  L’inglese allorà si alzò, disse “vaffanculo” in perfetto italiano e se ne uscì sbattendo la porta. Lui lo seguì urlandogli dietro frasi in dialetto irripetibili sbattendo la porta. E mio padre allora si alzò strillando che non doveva farsi più vedere, perché aveva offeso mamma e dato che lui non poteva sentirlo, uscì nella pioggia sbattendo la porta che, oramai rotta, rimase penzolante socchiusa.

Tornarono dopo dieci minuti, tutti e tre abbracciati, zuppi fradici e sebbene fosse oramai mezzanotte e a quell’ora era usanza scambiarsi i regali, ci armammo tutti di chiodi e martello e riparammo la porta canticchiando Stille Nacht:  e volendosi bene.

Io credo che anche Whiskey, se fosse stato con lui a Dublino quel giorno, lo avrebbe difeso da quel folle, nonostante le sue brutte opinioni sui cani: ed io avrei fatto lo stesso.

Certe mattine, adesso, esco di casa presto , quando ancora in paese tutti dormono, e con Whiskey vado al dirupo. Nel punto dove la strada si allarga creando uno spiazzo a strapiombo sul mare, alcuni ragazzi olandesi hanno eretto un grande pannello di legno con la scritta Frankie Forever e tutti quelli che arrivano , vi lasciano un messaggio, una data , un nome.

Mi metto accovacciato lì davanti , e comincio a curiosare tra dichiarazioni d’amore in francese, indirizzi spagnoli e frasi di canzoni che nemmeno conoscevo. E mentre il rumore delle onde che si infrangono sul dirupo mi tiene compagnia, penso a quante persone mio fratello ha conosciuto, a quante emozioni ha loro regalato e a quante poche cose ci siamo detti.

Stamattina ho fatto un aeroplanino di carta, utilizzando il foglio su cui ossessivamente nella notte insonne avevo più volte scritto “non lasciatevi abbruttire dalla verità, perché la verità vi renderà liberi” che credo siano i versi di una canzone che lui ha spudoratamente copiato da qualche parte.

E’ stato bello vedere dall’alto del dirupo quest’aeroplanino di carta volteggiare sul mare blu, fino al momento in cui il vento, stancatosi di sostenerlo, lo ha lasciato definitivamente infilarsi nell’acqua: nel punto esatto in cui, allora, le ceneri si erano disperse.

 

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