domenica 4 ottobre 2015

CADUTA LIBERA di Francesco Barilli


Tutta la faccenda poteva essere spiegata in modo tutto sommato semplice: non riuscivo a stare in piedi. Eva avrebbe trovato il solito chissà quale significato nascosto nella mia cronica mancanza di equilibrio. Precarietà di sentimenti, precarietà di movimenti. Mia madre, matta come un cavallo ma sempre pronta a indossare il camice del dottore mi aveva raccomandato una serie inverosimile di farmaci per malattie dai nomi più strani. Labirintite era quello che mi piaceva di più, nonostante la mia vita, per quanto piuttosto priva di colore mi pareva quanto di più lontano si potesse immaginare da un plumbeo labirinto, tanto per restare in tema di metafore nascoste. Io semplicemente cadevo.
Starmene seduto nella caffetteria a fissare con quanta sicurezza le persone sembravano padrone dei propri passi forse accresceva in segreto la mia invidia, ma quanto meno mi lasciava tranquillo un po’. Forse la mia sorellina aveva ragione: era il momento di iniziare a considerare seriamente l’opzione della sedia a rotelle, per quanto mi facesse sentire un usurpatore nei confronti di tutti quei disabili che davvero non possono farne a meno. Oh, al diavolo: non potevo continuare a lasciare il tatuaggio della mia faccia su qualunque asfalto della città. In compenso c’era un altro aspetto della mia bizzarra situazione di cui mi ero reso da poco conto: erano settimane che non sorridevo. E d’altronde, che motivo ne avevo visto che non facevo altro che cadere a faccia in giù? Non so dire se partisse prima la nausea alla testa o il languore alle gambe. Fatto sta che il numero di volte che finivo orizzontale senza che ci fosse una ragazza sopra o sotto era iniziato a essere preoccupante. Con qualche anno in più sarei assomigliato a una di quelle vecchiette con la pelle ricoperta di lividi per via dell’osteoporosi. Restava in me la sensazione che si trattasse di qualcosa destinato a passare. In termini medici credo si tratti di non accettazione della malattia. Oppure tutte le chiacchiere di Eva sulla mia scarsa tranquillità cominciavano a fare effetto.  Era per questo che mi trovavo in quella caffetteria, dove mia sorella mi aveva gentilmente accompagnato e poi abbandonato per un’imperdibile seduta dal suo specialista cingalese di smalto colorato per unghie: per fare il punto e scoprire quale sopito stress mi avvelenava l’anima al punto di non reggermi in equilibrio camminando. Allora, ricapitolando:  la prima volta era capitato al Beluth’s Deli, un posto orrendo su Mac Donald’s Avenue dove usavo rifornirmi di Hagen Daaz e altri gelati con caramello e pezzi di cioccolato e noci.  Raccomando Ben&Jerry a proposito, nella loro ricca scelta di Chunky Monkey, Charamel Chou Chou e altri favolosi gusti dall’incredibile contenuto calorico e zuccheroso.  Insomma, me ne stavo  con in mano il mio barattolo di gelato bigusto quando avevo allungato un braccio verso la matassa informe di giornali domenicali ed ero finito sopra il ripiano delle caramelle provocando l’esplosione delle biglie alla menta, ciliegia e cannelle. Le palline si erano sparate dappertutto sul pavimento, facendo diventare bianco come un lenzuolo il solitamente olivastro volto di Mr. Beluth, giunto un numero imprecisato di decenni fa da qualche paese della penisola indonesiana. Il sorriso da commerciante cortese non era sparito, ma più che la mia schiena, il signor Beluth aveva in mente la sua spina dorsale, pensando a quanti sforzi avrebbe dovuto compiere per ripulire il pavimento da quel casino. Mi ero goffamente rialzato cercando di rendere meno evidenti le macchie di gelato sulla camicia e lasciando come un Rockfeller qualunque due biglietti da 20 per ripagare il danno.  Con altri due di quei bigliettoni avrei preso in affitto il negozio per tutto il semestre, o così mi piaceva credere.

Due giorni dopo ero finito faccia a terra come un marine durante l’addestramento passeggiando per Prospect Park. In quel caso avevo dato la colpa al cane di una bella sventola con gli occhi nocciola e i denti bianchissimi. La verità era che quel cocker spaniel era ad almeno tre metri da me quando avevo deciso di regalare il ritratto della mia faccia alle foglie del parco. Fu in quel momento che vidi la dentatura della bella sventola biancheggiare in un sorriso velenoso di compatimento. Ecco il cretino che non riesce a stare in piedi. Complimenti; musica e titoli di coda. Anche in quel caso mi rialzai di scatto, come sempre capita quando vogliamo rassicurare –soprattutto noi stessi-  che non è successo niente. Almeno non allungai i 20 dollari alla sventola, così evitai di passare per un pappone.
Undici giorni e nove cadute inspiegabili dopo mi toccò la mia prima razione di fesserie new age da mia sorella.

- Devi trovare il tuo centro.-
- Eva, ti prego.-
- Davvero, Stu. Hai bisogno di ricalibrare.-
-Non ci vengo a fare yoga.-
-Lo so che non apprezzi certe pratiche. Il che non significa che non ne avresti bisogno. Stavo pensando a qualcos’altro.-
-Esattamente a cosa?-
-A un’insegnante di postura.-
-Di che?-
-Hai presente quelle ragazze che camminano come un camionista e poi, a forza di esercizi, passeggiate con un libro sulla testa e suggerimenti pratici, diventano delle indossatrici pronte a sfilare in passerella?-
-Mi stai descrivendo un’orribile commedia prodotta dalla Disney negli anni ’80.-
-Ooh, adoro quel film.-
-E dici che camminare con un libro sulla testa mi sarà d’aiuto?-
-L’alternativa è continuare a sbattere la faccia sul ciottolato del Village.-

L’appuntamento alla caffetteria era per le 16.30. L’insegnante si chiamava Emily Rose e, devo confessarlo, come tutte le volte che dovevo incontrarmi con una tipa di cui conoscevo solo il nome, iniziai a fantasticare sulle sue lunghe e snella gambe e il sorriso sbarazzino incorniciato da un rossetto delicato. Emily Rose arrivò puntuale, e della mia fantasia aveva solo il taglio degli occhi latino e il colore scuro e lucente dei capelli. Per il resto, era una donna di mezz’età per niente attraente che però aveva modi gentili. Appunti per il taccuino personale: mai farsi fissare appuntamenti al buio dalla sorella.

- Mi aspettavo qualcuno di meno giovanile- esordì. Probabilmente perché ricambiassi il complimento.  Restai zitto. Poi le domandai:- Perché, cosa ti aveva detto mia sorella?-
- Solo che hai gli occhi di Bette Davis. Come la canzone.-
-Avrà usato quella battuta almeno un milione di volte.-
- Beh, ha ragione.-
- Ti avrà probabilmente anche detto che sono divorziato, e che sono bravo a cucinare.-
- Per l’esattezza ha detto che sei bravino, a cucinare.-
- Detto da una che crede che la bistecca di vitello sia una specie rara di tofu. -
- Allora Stewart, qual è il problema? Come posso aiutarti?-
- Non riesco a stare in piedi: cado di continuo.-
-Non hai problemi che hanno a che fare con la medicina, mi pare di capire.-
-Niente guai a ossa, muscoli, articolazioni.-
- E … ? -
- Niente labirintite, giramenti di testa o tumori al cervello.-
- Immagino fosse una battuta.-
- Quella del tumore al cervello? … Come minimo hai avuto almeno un paio di casi in famiglia, eh?-
- No, volevo solo farti sentire come un cane per qualche secondo.-
- Messaggio ricevuto.-
- Sei.. distratto?-
- Non più di tanto. Voglio dire, solitamente no. -
- Sei goffo.-
- Può darsi. C’è un sacco di gente goffa, ma non per questo stampa i polmoni sul marciapiede.-
- No, quello no. Vuoi … che camminiamo un po’?-
- Me lo stai chiedendo veramente?-
- Avanti, paga il tuo caffè.-
- Tu non prendi niente?-
- Se a quest’ora inizio a bere, generalmente si tratta di Martini. E non finisco prima di mezzanotte.-
- A ognuno i suoi guai.-
- Già.-

Potresti prendere in considerazione l’idea che sia tutta una fesseria. La voce interiore che me lo disse era ferma e convincente. Avrebbe meritato considerazione. Ma io ero disteso al suolo, franato qualche minuto prima tra le sedie della mia cucina. Uno strano mondo in cui la testa delle persone si fa largo tra le gambe delle seggiole e il pavimento di mattonelle regge per intero il peso, a cominciare dalla testa. Erano passati cinque giorni dal pomeriggio dell’appuntamento con Emily Rose, ed ero caduto molte volte da allora. Nessun lampo di genio su cosa potesse essere la causa di quelle continue perdite di equilibrio, e nessuna verità che affiorava a poco a poco, come quando si comprendono davvero le cose. D’un tratto avevo iniziato a cadere, la cosa si era ripetuta e io non ci avevo capito niente. Niente metafore, niente simboli, nessuna lezione da imparare. Cadevo e poi cadevo. Per qualche tempo strisciai, trascinandomi dentro casa come un fottuto poppante, fissandomi i piedi e le caviglie per cercare di vedere, di capire quello che mi stava capitando. Emily Rose aveva fatto del suo meglio, tutti quelli che conoscevo avevano cercato di dare una mano.
E invece nulla. La mia testa dura resisteva, ai colpi e alla necessità di trarne qualche insegnamento. Forse l’unica cosa che in fondo avevo capito era che in fondo la caduta durava troppo poco.  Volare giù era bellissimo, ma il duro colpo del suolo interrompeva quasi subito la magia. Convinsi Emily Rose ad accompagnarmi a Wind Creek. Mentre reggevo l’imbragatura dell’elastico  sorridevo di un sorriso idiota. Quello che mi serviva era solo non inciampare per qualche passo ancora, giusto la distanza per arrivare al parapetto. L’istruttore aveva due ampie spalle quadrate, la pelle abbronzata e l’attaccatura dei capelli quasi dietro le orecchie. Vidi Emily Rose che sorrideva, a un centinaio di metri sotto di noi. Gridò qualcosa, ma l’eco della vale rese le parole confuse.
-L’avrò fatto un migliaio di volte- disse l’istruttore per rassicurami.
Funzionò. Fui investito da una frustata di brividi di panico, ma riuscii a raggiungere il parapetto tastando con le dita della mia mano la fibbia e la grossa corda che mi tenevano ancorati alla vita.
Il bungee jumping è roba da mentecatti. Confermo. Non so da dove presi la forza  per vincere la paura, ma saltai. E prima di sentire la corda che strattonava, prima che i brividi mi agitassero il petto fino a farmi gridare, prima che l’aria entrasse nella mia bocca spalancata e impaurita, provai la sensazione che stavo cercando.
Non esisteva la terra, non c’era alcun legame con altro elemento di questo mondo se non con l’aria. Cadevo. Ero un piccolo pianeta in orbita nel suo cosmo personale.
Ero in caduta libera.

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