domenica 7 giugno 2015

LETTI di Sabrina Carollo

Pausa

No, non avrebbe dormito in quel letto. Piuttosto si sarebbe fatta ammazzare. Che poi, più o meno le pareva la stessa cosa.

La stanza era putrida: le pareti scrostate, graffiate e scritte, gli infissi della finestra mezzi marci, le tende che spiovevano tristemente ai lati del vetro, grigie di anni di nicotina incontrollata. Il lavandino, in un angolo, sbeccato e sgocciolante, ingiallito da anni di uso indebito; una sedia triste, una specie di armadio che non osava nemmeno avvicinare. E poi il letto, con un grande, minaccioso materasso sfondato appena coperto da un lenzuolo, due cuscini e una coperta militare. Non voleva dormirci, non voleva essere lì, sola, in quel posto orribile.

Era lontana millemila chilometri da casa, senza capire una parola di quello che le veniva detto, e stava per trascorrere la notte in una topaia. Quando vide il primo scarafaggio lanciò un urlo. Ora era chiaro perché le gambe del letto erano infilate in quelle vaschette piene d’acqua. Saltò sul letto vestita, lo zaino stretto a sé. Estrasse solo il kway, lo infilò compreso di cappuccio e si abbracciò nuovamente al grande zaino da montagna.

Era tutto ciò che possedeva, in quel momento. Era la sua famiglia, sparpagliata per tre città, suo padre che ormai vedeva una volta al mese, sua madre sempre di corsa, sempre infelice, sempre arrabbiata. Suo fratello, lo sguardo smarrito, ma almeno al caldo dei nonni. Era quello stronzo con cui aveva provato a vivere - troppo a lungo per dichiararsi sana di mente. Era il suo vicino di casa, una moglie, due figli e un groppo in gola. Era la sua amica Lea, che avrebbe dovuto essere lì con lei, merdina, e invece all’ultimo non se l’era sentita. Era quel tipo della libreria, una cosa da togliere il fiato, dietro agli scatoloni nel retrobottega affollato di carta. Era Barbara, che sapeva come tenerla per mano per non farla cadere. Era il suo grande amore, intravisto per anni e solo accarezzato, una notte in cui erano ragazzi, che correva veloce come il vento, troppo forte perché lei potesse acchiapparlo.

Sentiva il ticchettio degli insetti che correvano sul pavimento. La luce fioca della lampada non li fermava. Si raggomitolò sopra il lenzuolo, abbracciata allo zaino, gli occhi aperti e i sensi completamente desti.

Non era paura, quella che provava, no. La conosceva bene, quella bastarda, la aveva accompagnata a lungo. Non aveva paura, non aveva più paura di niente. Era piuttosto spasmodica attesa. Fastidio. Era incastrata lì e non poteva andarsene fino al mattino dopo. Le strade erano troppo pericolose per una donna sola, la notte. Provò ad accomodarsi meglio, magari avrebbe riposato un po’, accoccolata allo zaino. In fondo le avrebbe fatto bene. Rilassarsi, lasciare che il tempo scorresse, nonostante tutto. Aspettare non era mai stato il suo forte. Ma magari avrebbe imparato qualcosa, da quella sosta forzata in un posto orribile. Per questo era lì, d’altra parte, no? Il caso non esiste, e ciò che l’aveva guidata lì le stava parlando. Bisognava ascoltare. Avrebbe aspettato, ferma, senza scopo, senza obiettivo e senza soddisfazione. Avrebbe guardato il vuoto negli occhi e avrebbe battuto pure lui. Sarebbe rimasta, almeno fino all’alba.

 

 

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