domenica 7 giugno 2015

LA RAGAZZA DELLA PORTA ACCANTO di Francesco Barilli

Dovrebbero proibire a certe ragazze di scuotere la testa a una certa maniera mentre camminano per strada. Lo fanno ancheggiando, come la danza di un cobra. Una cosa certo piacevole da osservare, ma non quando si guida una Ford con più anni di te.

Fu colpa del taglio degli occhi, credo, o della forma della bocca. O di tutto il resto, finiamola di prenderci in giro: avevo centrato un tabellone pubblicitario per dare retta alle moine di quella biondona dalle scarpe impossibili. La quale, come solo una donna può permettersi di fare, incurante della tubata che avevo appena battuto aveva proseguito la sua camminata ancheggiante fino a un negozio di cianfrusaglie e ci si era infilata dentro, certo per acquistare un indispensabile paio d’orecchini.
Non mi ero fatto niente, anche perché la mia auto fa i 22 in discesa al massimo, ed ero sceso a contemplare il bassorilievo della Mesopotamia apparso sul cofano quando comparve lui. Via la biondona, dentro il vecchio gobbetto scassapalle: scambio alla pari. Ora, la piccola sarà stata anche una classica ragazza della porta accanto- un condominio assai ben popolato, secondo me- ma il vecchio era il classico rappresentante della Specie Riunioni di Condominio, se avete presente il tipo. Individui capaci di ciarlare per 42 minuti consecutivi senza dire una sola cosa degna d’interesse.
- Successe anche a me, sa? … La prima volta che portavo a spasso la mia Meredith, appena fidanzati.-
Le mogli di questa gente hanno sempre nomi da telefilm in bianco e nero. Il gobbetto l’aveva presa alla lontana, segno che voleva farmi compagnia per un bel pezzo. Intenzione che, sarete comprensivi, andava contro il mio programmino di serata tanto per cambiare dedicata a farmi i fattacci miei. Così, prima che cominciasse a mostrarmi le ferite della mitragliatrice in Normandia, l’accoppai.
Non fate quella faccia, non sono un assassino. Ho detto che lo feci fuori, ma ciò non significa che lo feci apposta. Stava mimandomi chissà che cosa di un episodio esilarante della sua carriera di scassapalle professionista. Io, tanto per cambiare, non ascoltavo. Avrei potuto dirgli “taglia”, o “smamma”, o qualcosa del genere. Ma visto che il gobbetto sembrava impermeabile a qualsiasi evento che non riguardasse la sua beata gioventù, gli detti un colpetto. Dietro le spalle- o meglio, sulla gobba- così, senza particolare forza, giusto per schiodarlo dal cofano della mia auto. Quello scemo, manco fosse fatto di bastoncini dello Shanghai, si ripiegò su se stesso. Fece una faccia di quelle che vanno bene per le foto alla macchinetta automatica- una faccia orrenda da documento ecco- e si ripiegò in quattro, sull’asfalto. Quello che mi lasciò di stucco davvero fu il movimento a elica della sua già improbabile spina dorsale. Venne giù, come un dannato fantoccio. E mi crepò sotto il naso. Qualche attimo mi ci volle per realizzare. Poi quando la sventolona bionda uscì dal negozio di ninnoli e mi dette un’occhiata piena di sesso compresi. Una donna così, che ci stava, e un gobbetto morto ai miei piedi. L’ombra di un sorriso fece piegare l’angolino della bocca di lei che se andò poi per i fatti suoi, senza notare che avevo un cadavere davanti all’automobile. Solo quando si vive senza una donna da anni come me si può capire per quale motivo con un vecchietto morto davanti me ne stessi a tenere il petto in fuori come un pavone idiota che apre la ruota davanti alla pollastra. La bionda se ne andò, dunque. Io salii in macchina e feci lo stesso. Non era una cosa bella da fare, ma c’è da considerare lo stato di shock; almeno così si dice in questi casi, quando si cercano giustificazioni vergognose ai nostri misfatti. La mia preferita è la “incapacità temporanea d’intendere e di volere”, una cazzata grande quanto una casa inventata dagli psichiatri, cioè dottori bocciati all’esame di chirurgia o giù di lì. In genere viene tirata fuori in caso di fatti di sangue mostruosi, tipo 3, 4 morti, con la motosega o altri aggeggi del genere. Incapacità temporanea significa che la persona in questione è perfettamente normale alle tre in punto. Alle tre e un minuto impazzisce, prende la motosega e divide la mamma in quattro pezzi; quindi toglie dalla teca delle armi- c’è sempre una collezione di armi, a casa dei maniaci- uno sciabolone armeno e taglia la testa al babbo. Non contento, versa dell’acido sulla bambina e fa esplodere la moglie rompipalle con del propano. Quindi, alle tre e otto torna normale, ovviamente in stato di shock. Interrogato dalla polizia piagnucola, balbetta qualche puttanata e si dà malato. A meno che non sia negro o messicano con un buon avvocato o uno psichiatra venduto la fa franca.

Dopo questa amabile digressione torniamo a quel pomeriggio. Avevo ancora davanti l’occhiata che mi aveva tirato la sventolona quando la mia auto decise che non avevo fatto abbastanza danno per quel giorno. Frenando alla meno peggio sentii l’inconfondibile rumore che fa una macchina che ha impiombato un cagnolino, o un gatto nel mezzo della strada. Se far fuori il vecchio gobbetto mi aveva lasciato dopotutto piuttosto indifferente l’idea di aver fatto del male a un cane mi fece stare malissimo. Sono amico dei cani,  e non rompetemi con la faccenda della compensazione di affetti; mi piacciono i miei amici cani e basta, e io piaccio a loro. Punto. Scesi dall’auto col cuore in gola, pronto a piangere come un vitellino. Invece, il peso dal cuore se ne andò; sorrisi, sollevato. Era solo uno stupido moccioso, per di più coi capelli a caschetto. Odio i capelli a caschetto, e quel poppante doveva essere stato particolarmente insopportabile. Beh, ora non era più un problema, perché era crepato anche quello sul colpo. Questa volta fu diverso. Rimasi muto come un ebete diversi minuti, a decidere di capire come fosse possibile: uccidere due persone, io che a parte i calci in culo al mio fratellino da piccolo non avevo mai fatto del male a nessuno. Presi il piccolo in braccio, stringendolo a me. Piansi, dissi perfino un preghiera per lui. Lo adagiai sull’erba, accanto al marciapiede. Il cespuglio alto, che cresceva accanto a una rete di recinzione formava come una nicchia, una piccola camera mortuaria all’aperto. Avrei voluto sapere il nome di quel bambino: aver giocato con lui, averlo visto sorridere assieme ai suoi amici. Ma purtroppo era tardi, ormai. Era morto, io lo avevo ucciso.
Poi me ne andai.
Non sono un mostro, non sono un assassino. Ma in verità, prima di giudicarmi, toglietevi quella smorfia di disgusto dalla faccia e pensateci un attimo. Lo so che voi dite “non farei mai uno scempio del genere”. Lo dicevo anch’io. Ma due morti così fra capo e collo sono una brutta medicina per chiunque. Ero frastornato, impazzito; o magari soltanto incapace d’intendere e di volere. Fatto sta che posteggiai quella parodia d’auto maledetta e me ne andai a piedi. Qualcuno mi mandò al diavolo. Dentro un taxi, l’uomo seduto davanti- il tassista, non mi veniva la parola- mi avrebbe visto bene in compagnia di Satana piuttosto che in mezzo alla strada in quel momento. Io neanche lo vidi, sentii soltanto la sua voce che abbaiava. Dietro di lui la biondona. Seduta, fumava. In quella frazione di secondo vidi- lo so, quello che sto per dire è impossibile, ma credetemi- che teneva le gambe accavallate, sensuali, provocanti. E poi… ancora quell’occhiata. Non una nuova occhiata, ma quella di prima. Se l’era ripresa e me l’aveva spedita nuovamente, nel caso il messaggio non fosse stato abbastanza chiaro. Potete immaginare cosa mi passò per la testa di farle. Un sacco di belle cosette, certo. Forse era il mio modo di restare attaccato alla vita, alle piccole cose innocue che formano il nostro quotidiano. Pensare all’amore per non pensare alla morte o giù di lì. Mentre l’auto svoltava l’angolo, io ero ancora a pensare alle sue gambe, una sull’altra, piegate in un angolo come solo le donne sanno fare.
Svoltai anch’io e mi scontrai contro una signora che non accavallava più le gambe dalla guerra in Corea. Per proteggermi da quella nave di ciccia pronta a speronarmi come una rompighiaccio norvegese alzai il gomito. La grassona andava spedita e il gomito le si conficcò nello sterno come il paletto di un vampiro La vidi boccheggiare, senza fiato. Cominciò a dondolare come la seggiola dei racconti della Nonna fino a che non franò all’indietro, regalando al muro l’impronta posteriore del suo cranio Le mie dita tentarono l’impresa impossibile di prenderla, ma c’erano troppi dolci alla crema e nocciola tra la forza delle mie mani e la sua stazza. Cadde, e accipicchia morì anche lei.
Stavolta reagii da uomo. Imprecando, bestemmiando, prendendo a calci tutto quello che c’era, mandando improperi alla cicciona. La guardai in faccia. Tra il collo e il mento multiplo c’era lo spazio per almeno un paio di buche su un campo da golf professionistico. Se sotto a quei due mammelloni avessi trovato un cinese morto non avrei avuto nulla da ridire. Ma era inutile che menassi il can per l’aia: quel giorno l’unico che andava in giro ad accoppare al gente ero io. Come tutti a quelli a cui sono saltate le valvole cominciai a pensare alla congiura. Il vecchio, sano complotto. Non era più improbabile: era impossibile che una persona normale uccidesse senza volere tre persone. Vidi sul pavimento la borsetta della cicciona. Almeno di quella avrei visto il nome, scritto sui documenti. Cacciai la mano dentro la sua borsetta, detto fra noi, bruttissima. Ero partito con l’idea di tirar fuori il solito disgustoso borsello di coccodrillo, con dentro la foto del faccione della signora. Me ne uscii fuori con in mano una rivoltella uscita fuori da qualche film di gangster: quasi mi stupii che non fosse in bianco e nero.
- Non mi freghi- dissi rivolto alla pistola. E la lasciai cadere nella borsetta. Non volevo altri guai, tre morti erano abbastanza.
Non avevo fatto i conti con la sicura difettosa. Partì un colpo. Bestemmiai.
Quando mi voltai vidi un prete steso a terra, come di fronte all’apparizione di S. Giuseppe.
- Sta’ a vedere che è la bestemmia che l’ha fatto fuori- pensai, ma il foro sulla fronte lasciava poco spazio alla fantasia. Lago di sangue, pistola fumante. Mancava solo Samuel L. Jackson.
Non pensavo di poter essere in grado di inventare sul momento, così, tutte quelle parolacce. Invece vennero fuori come vespe da un nido. Iniziai a correre.
Casa mia era più vicina di quanto pensassi. Con un salto feci a meno degli scalini che portano all’ingresso. Era il momento del rito delle chiavi. Un mazzo, cinque chiavi uguali, solo una quella del portone d’ingresso. Ovviamente, è l’ultima che di solito infilo. Al terzo tentativo, mentre la follia stava impadronendosi di me sotto forma di panico, detti un’occhiata alla finestra del piano terra. L’appartamento accanto al mio, nella palazzina a un piano, di legno bianco, a Brooklyn.
Dio santo del cielo. La ragazza che stava truccandosi in camera; indovinato: la sventolona. Un vortice di brutti musi mi stava tormentando: la grassona, il bimbo, il prete morto, il gobbetto. I loro occhi vitrei e persi nel vuoto, incastrati in volti lividi e sanguinolenti, furono spazzati via da un alone di pace celestiale. Tutto si calmò dentro di me. Ancora quei suoi occhi, i capelli biondi, che le scendevano appena sulle spalle. Le sue labbra, soffici, che la bambola stava disegnando del colore del rossetto. Ero innamorato di lei, come si sente blaterare nelle canzoni. La cosa più idiota che mi potesse venire in mente era che avesse la voce da cornacchia. Ma quello era perché stavo impazzendo. Sapete, tutti quei morti. No, non potete saperlo, ma fa lo stesso. Era bellissima comunque, e fui preso da pensieri lugubri al riguardo. Il primo: quella donna era una strega. Mi aveva rapito, ammaliato col sortilegio del suo sguardo e mi aveva fatto commettere quei delitti. Tutto era cominciato quando l’avevo vista e avevo mandato a sbattere quel mio cesso di Ford contro il cartello stradale.
Il secondo: quella ragazza era un angelo. Le ali le aveva messe momentaneamente da parte, ma quella era una creatura di luce e bellezza portata a darmi pace. A salvarmi, dai miei delitti. Ma… se quella era una creatura innocente… avrei forse ucciso anche lei, una volta incontratala? Qualora avessi provato ad abbracciarla, o soltanto a sfiorarla con un dito, chi mi dice che non l’avrei colpita; che lei non sarebbe scivolata, caduta, infrangendosi come un oggetto fragile e prezioso?
Smisi di tentare d’infilare la chiave giusta dentro la toppa. E guardai il campanello del suo appartamento. La ragazza della porta accanto. Ancora forse non sapeva che un suo sguardo, una sua parola avrebbero forse provocato mutamenti nella mia vita. O forse lo sapeva benissimo, ed era pronta a infischiarsene, o a prendersi cura di me. Che cosa le avrei detto? Che dal momento che l’avevo vista la mia esistenza non era stata più la stessa, che sarei stato disposto ad uccidere per ottenere un suo bacio? Uccidere. Ci sono tante persone che incontriamo, e senza che diamo loro la minima importanza, scompaiono dalla nostra vista. Se ne vanno in fretta dai nostri pensieri: morti, accoppati. E quante volte siamo noi che veniamo ammazzati dalla fretta per il ritardo a un appuntamento. Ci sono invece volte in cui il nostro sguardo si posa su qualcuno. E questo qualcuno non muore; anzi, se ci pensiamo bene, tra quelli che vediamo è l’unico a sopravvivere davvero. E siamo disposti ad amare questa persona, non migliore o peggiore di altri, per il semplice fatto che ci è vicina; e anche noi, senza essere santi o assassini contiamo qualcosa per lei.
Ma è un rischio, sempre. Per noi e per lei. Perché prima o poi il giocattolino si rompe, la gente si stufa, si lascia e si dimentica. O forse no, dura per sempre. Esiste sempre la possibilità di uccidere o essere uccisi quando si decide di amare. E c’è un solo modo per sapere come va finire.


Avvicinai il dito, premetti il campanello. E sfoderai il mio Famoso Sorriso da Vicino di Casa, gentile con la nuova arrivata.

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