sabato 28 febbraio 2015

RAPINATORE A PIEDI di Andrea Mitri



La promessa originaria la feci la mattina che mia madre se ne andò via di casa con il gommista della Goodyear, da cui aveva fatto l’inversione delle  gomme due settimane prima.  Avevo undici anni e solennemente giurai a me stesso che non mi sarei  mai e poi mai comperato una macchina. Mio padre invece acquistò per la prima volta una bottiglia di vodka, si ubriacò ed uscì nel freddo della notte a tagliare gli pneumatici di tutte le automobili parcheggiate nella strada, non valutando che così facendo, avrebbe  fatto un favore al suo rivale in amore. Così finì in carcere, per quattro giorni,  e ne uscì per andare direttamente alla banca a stipulare il mutuo per i risarcimenti, che, di fatto, lo avrebbe legato al suo lavoro di insegnante precario per i successivi quindici anni; distruggendone sul nascere il sogno di diventare uno degli sceneggiatori di Tornatore.
Sette anni dopo , quella promessa, la reiterai.
Il giorno in cui mio padre ritrovò l’amore tra le braccia di una poliziotta del terzo distretto,  io giurai a me stesso che sarei diventato un delinquente (anche se fondamentalmente non ero interessato al genere ) e già che c’ero , aggiornai la promessa iniziale al non usare mai una macchina per fuggire dal luogo del delitto.
E’ così che è nato il mito dell’inafferrabile rapinatore a piedi, il ragazzo agile con il passamontagna, che entra nei minimarket del padovano puntando la pistola, afferra l’incasso e fa perdere le sue tracce nei vicoli circostanti nel giro di pochi minuti, facendo ammattire la polizia di mezzo Veneto.
Sono inafferrabile perché ho sempre studiato nei minimi dettagli i miei assalti: segno con dei gessi Maimeri di colore ogni volta diverso, le vie di fuga prossime all’edificio in cui ha sede il mini market, privilegio i percorsi poco battuti dalla gente in giro per compere, le scalinate in discesa e i vicoli a scarsa illuminazione. E faccio pochi colpi, a distanza di tempo lunga e variabile, assolutamente non necessari al sostentamento della mia vita banale e tranquilla di liceale dell’ultimo anno del Carlo Goldoni, che supporto economicamente dando ripetizioni di inglese e spagnolo agli studenti dei primi anni.
A chi crede che l’adrenalina vada a mille in quei momenti, voglio dire che nel mio caso non succede. Tutto avviene molto tranquillamente, forse perché  conservo sempre quella lucidità e quella freddezza che mi hanno regalato il soprannome di “Gelo” nella cerchia delle mie compagne di classe, ragazze cui mai ho dato, anche per un attimo,  parvenza di interesse amoroso.  Non ho mai permesso che qualcosa andasse storto, che l’imprevisto si frapponesse anche solo per un attimo tra me e la realizzazione della rapina. Ho sempre valutato con attenzione, anche la miriade di telecamere di sicurezza che stanno rendendo insecretabile la nostra vita di tutti i giorni, e variato i travestimenti durante i sopralluoghi; di modo che nessun zelante ispettore potesse notare una presenza assidua di qualcuno,  nelle vicinanze del minimarket , qualche giorno prima del colpo.
Ho impostato la mia vita sul controllo, sul rifiuto dell’imprevedibile e sul mantenimento delle promesse. Ma da qualche parte, nascosto nelle pieghe della nostra adattabilità alla vita, esiste un piccolo spazio, quasi un taglio, in cui la vita stessa riesce , nei momenti più impensati, ad iniettare il veleno della sua forza superiore.
Perché di veleno a me sembra che si tratti.
A me succede alle 16.45 di oggi pomeriggio, in questo momento , mentre punto la pistola contro la cassiera bionda e le intimo di versare i soldi nella busta di carta della Calzoleria Gianassi, che ho appena recuperato in un bidone della spazzatura qui vicino. Non la vedo e non la sento, la signora anziana con il cappotto beige che a fatica sta rimettendo gli spiccioli dentro il suo consunto portamonete verde. Non la vedo e non la sento, le sono passato davanti senza osservarla nel momento in cui sono entrato. Non la vedo e non la sento fino a quando non mi giro e i suoi occhi incrociano i miei.
“Te gà i stesi oci de tu mama” mi dice avvicinandosi al mio viso.
E mi tira un ceffone che a me sembra solo la prima carezza dopo tanto tempo.



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