Se ci pensi
questa cosa è stranissima: stare in cinque persone a turno in una stanza ad
aspettare che qualcuno muoia. E lascia perdere se è una persona vecchissima,
che non sta soffrendo, che è giunta la sua ora, che i parenti se ne sono già
fatti una ragione e tutte quelle cose lì: pensa al fatto che sei in una stanza
ad osservare una persona attendendo che muoia. E magari c’è anche chi spera che
accada il prima possibile: per amore della persona che sta morendo o perché
magari vuole semplicemente che tutto finisca (non si sa se per sé o per
l’altro). O magari c’è anche chi spera che la morte arrivi proprio mentre lui è
lì: vedere arrivare la morte.
E’ come
quando guardi una mano lunga e magra: lo sai che ti può accarezzare esattamente
come le altre, lo sai che potrà essere addirittura più sensuale e promettente
di mani più tozze, lo sai che se ti metti ad osservarle ti danno l’idea di
fuggire lontano, di essere sempre un po’ distanti dal corpo cui appartengono.
Ecco: la morte è come le mani lunghe e magre: sono affascinanti, ti fanno venir
voglia di chiudere gli occhi, vorresti un’ultima carezza prima di andar via, e
poi un’altra, e poi un’altra … perché non vuoi staccartene. Proprio come con la
vita. E con la morte.
Io ho le mani
lunghe e magre. Da sempre. Ogni tanto mi fermo ad osservarle. Tutti, fin da
piccolo, a dirmi: hai le mani da pianista. No, io ho le mani di uno che fugge.
Ma che fa in modo che non ci si stacchi da lui. Bel controsenso, eh?
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