sabato 28 febbraio 2015

CENOTAFIO DI UN DESTRIERO IN LEGA di Narciso Fenice Ramparti


Fra i miei diversi traumi prima infantili e poi adolescenziali, ancora mi strugge il ricordo di quando m'incularono il rampichino. Fu una botta neorealista. Innanzitutto il bianco e nero: un grigio pomeriggio di un grigio inverno nella a tratti grigia Firenze residenziale, in zona Statuto. Io, nello specifico, ero un eroe neorealista spalmato sul 1989 coi miei inutili ma cordiali quattordici anni. Il rampichino – italianismo per mountain-bike, nello specifico un marchio registrato (“Rampichino”) e distribuito dalla ditta milanese Cinelli a partire dal 1985 – rappresentava la frontiera dell'orizzonte premotorizzato: almeno nel quartiere popolare dove abitavo e in quei tempi di pubescente stolidità, avere la bici era sostanziale. Non averla faceva di te un paria dei giardinetti, mentre disporre di un modello nuovo ti conferiva automaticamente un ruolo rispettabile in quel microcosmo comunque mandato affanculo da chiunque avesse un motorino (ovvero praticamente tutti). Anni di ebetismo appiedato avevano fatto della mia adolescenza un lungo e nero tunnel: per uscirne dovetti estorcere a mio padre il paradiso a pedali dei poveri minacciando il suicidio. Fu relativamente facile e cominciai così a planare estaticamente per le strade come molti altri ragazzi normali. Un piacevole aneddoto: chiudendolo qui lascerei di me un ricordo sereno, realizzato, fecondo di aspettative. Ma il Dio degli Eserciti e della Carne Strappata a Brani mi impone di continuare. Il mio splendido rampichino verderame e grigio metallizzato mi servì brillantemente per circa un anno, fino al giorno del nostro appuntamento col destino. L'ultima corsa ci portò dalla periferia Nord verso il più signorile suburbio fiorentino a ridosso dei Viali che circondano il centro storico. Avevo lasciato la bici legata a un palo per addentrarmi nella maestosa intimità di un cortile di via Crispi, una delle eleganti contrade che si dipartono dal corso del torrente Mugnone. Strade e edifici di età fascista, caratterizzati da spazialità, monumentalità e tessuto sociale ben distanti dalla pur amena Careggi bassa, dove con i miei amici ci divertivamo a lanciare sassi nel Terzolle o a collezionare escrementi di animali. Questo per dire che già non ci stavo dentro, e che l'orribile privazione della mia prima mountain-bike fu una lezione magistrale, uno smacco in termini di metodologia della vita, e la definitiva perdita della mia innocenza: e non già nello scenario del mio vicinato o dei leggendariamente più insidiosi distretti di Novoli, dell'Isolotto, di Santa Maria Novella, bensì di una severa zona bene. Lì abitava Alex, mio compagno di banco trasferitosi l'anno prima con la famiglia dal Tirolo: a Firenze era praticamente spacciato dal punto di vista relazionale e fu inevitabile solidarizzarci. Quel primo pomeriggio prevedeva un incontro veloce per prendere o lasciargli non ricordo cosa e con l'occasione giocare un po' col suo computer. Scendo dopo un'ora e...ecco. Sparita. Io lucido abbestia: me l'hanno gallata. Anche le mura mi urlarono contro. Nessuna persona in vista, mentre il cielo, la strada e queste alte mura grigie si aprivano ridanciane su di me in uno scenario dechirichiano. Lucchetto intatto in fondo al palo. Errore basilare. Avevo legato il lucchetto attorno al sellino. L'han portata via così, sfilandola. Sono io il complice, anzi l'artefice di questa tragedia. La mia stupidità pinocchiesca aveva immolato al Moloch dell'Idiozia il mio solo status symbol adolescenziale. Grande lezione, cari miei. La qual lezione vi trasmetto con la connessa morale: homo faber fortunae suae, diceva qualche cagaminchia sapendo bene di aver ragione.

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