Fra i miei diversi traumi prima infantili e poi
adolescenziali, ancora mi strugge il ricordo di quando m'incularono il
rampichino. Fu una botta neorealista. Innanzitutto il bianco e nero: un grigio
pomeriggio di un grigio inverno nella a tratti grigia Firenze residenziale, in
zona Statuto. Io, nello specifico, ero un eroe neorealista spalmato sul 1989
coi miei inutili ma cordiali quattordici anni. Il rampichino – italianismo
per mountain-bike, nello specifico un marchio registrato
(“Rampichino”) e distribuito dalla ditta milanese Cinelli a partire dal
1985 – rappresentava la frontiera dell'orizzonte premotorizzato: almeno nel
quartiere popolare dove abitavo e in quei tempi di pubescente stolidità, avere
la bici era sostanziale. Non averla faceva di te un paria dei giardinetti,
mentre disporre di un modello nuovo ti conferiva automaticamente un ruolo
rispettabile in quel microcosmo comunque mandato affanculo da chiunque avesse
un motorino (ovvero praticamente tutti). Anni di ebetismo appiedato
avevano fatto della mia adolescenza un lungo e nero tunnel: per uscirne dovetti
estorcere a mio padre il paradiso a pedali dei poveri minacciando il suicidio.
Fu relativamente facile e cominciai così a planare estaticamente per le strade
come molti altri ragazzi normali. Un piacevole aneddoto: chiudendolo qui
lascerei di me un ricordo sereno, realizzato, fecondo di aspettative. Ma il Dio
degli Eserciti e della Carne Strappata a Brani mi impone di continuare. Il mio
splendido rampichino verderame e grigio metallizzato mi servì brillantemente
per circa un anno, fino al giorno del nostro appuntamento col destino. L'ultima
corsa ci portò dalla periferia Nord verso il più signorile suburbio fiorentino
a ridosso dei Viali che circondano il centro storico. Avevo lasciato la bici
legata a un palo per addentrarmi nella maestosa intimità di un cortile di via
Crispi, una delle eleganti contrade che si dipartono dal corso del
torrente Mugnone. Strade e edifici di età fascista, caratterizzati da
spazialità, monumentalità e tessuto sociale ben distanti dalla pur amena
Careggi bassa, dove con i miei amici ci divertivamo a lanciare sassi nel
Terzolle o a collezionare escrementi di animali. Questo per dire che già non ci
stavo dentro, e che l'orribile privazione della mia prima mountain-bike fu una
lezione magistrale, uno smacco in termini di metodologia della vita, e la
definitiva perdita della mia innocenza: e non già nello scenario del mio
vicinato o dei leggendariamente più insidiosi distretti di Novoli,
dell'Isolotto, di Santa Maria Novella, bensì di una severa zona bene. Lì
abitava Alex, mio compagno di banco trasferitosi l'anno prima con la famiglia
dal Tirolo: a Firenze era praticamente spacciato dal punto di vista relazionale
e fu inevitabile solidarizzarci. Quel primo pomeriggio prevedeva un incontro
veloce per prendere o lasciargli non ricordo cosa e con l'occasione giocare un
po' col suo computer. Scendo dopo un'ora e...ecco. Sparita. Io lucido
abbestia: me l'hanno gallata. Anche le mura mi urlarono contro. Nessuna
persona in vista, mentre il cielo, la strada e queste alte mura grigie si
aprivano ridanciane su di me in uno scenario dechirichiano. Lucchetto intatto
in fondo al palo. Errore basilare. Avevo legato il lucchetto attorno al
sellino. L'han portata via così, sfilandola. Sono io il complice, anzi
l'artefice di questa tragedia. La mia stupidità pinocchiesca aveva
immolato al Moloch dell'Idiozia il mio solo status symbol adolescenziale.
Grande lezione, cari miei. La qual lezione vi trasmetto con la connessa
morale: homo faber fortunae suae, diceva qualche cagaminchia sapendo bene
di aver ragione.
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