Dapprima l’acqua dei
pozzi risultò salata.
Poi , attraverso l’aria
della nostra campagna, denso si diffuse l’odore del mare.
La mattina aprivo la
finestra e lo respiravo a pieni polmoni; il dottore mi aveva detto che
rachitico com'ero non poteva farmi che bene. Ma quando più tardi lavoravo con
mio padre nei campi, mi infastidiva che l’odore di salsedine si mescolasse con
quello dell’uva e degli orti costringendomi a rimemorizzare la mia mappa
olfattiva.
La nostra vita,
comunque, non ne risultò troppo sconvolta.
Alla sera ci riunivamo
come sempre intorno al fuoco, lasciando la porta aperta nell’attesa che la
brezza, adesso, ci portasse fantasie di navi, balene e pirati; e la domenica ,
finito il bagno nella vasca, ci piaceva scoprire con la lingua una striscia
salata sulle nostre spalla.
Infine arrivò l’onda.
Probabilmente la
sentimmo montare sotto il vecchio mulino, filtrare attraverso i canali
d’irrigazione e infine erompere trascinando via con sé uomini, animali , cose.
Io fui tra i pochi
fortunati che riuscirono ad aggrapparsi ad uno stipite di porta, a un ciliegio
non più in fiore, ad un tavolo di noce disperatamente galleggiante. Gli altri
vennero trascinati lungo la pianura, sparsi e dimenticati là dove l’acqua,
forse stanca di ribollire, non se l’era più sentita di ridisegnare il
paesaggio.
Una volta ritrovati i
corpi, pensammo che forse sarebbe stato loro desiderio venire seppelliti in
quella terra che avevano da sempre con fatica coltivato. Allora caricammo i
cadaveri sulle barche generosamente offerteci dalla Canottieri Olona in segno
di solidarietà, legammo al collo di ognuno dei nostri cari una pietra del
vecchio mulino e li gettammo nel nostro mare morto, fiduciosi che la natura
avrebbe avuto pietà di loro rimestandoli alla fanghiglia sottostante.
E diventammo marinai.
Nel punto esatto dove
nel ’49 vidi passare i corridori del Giro d’Italia costruimmo la prima casa,
poi gli attracchi, la taverna, la scuola. Con sabbia di riporto ci inventammo
una spiaggia e col tempo riempimmo il nostro mare morto di pesci d’allevamento,
sperando che una volta liberati riuscissero, evolvendosi, a dare dignità alle
nostre acque, attirassero i pescatori e ci illudessero di far crescere ancora
qualcosa nella nostra campagna sotterrata.
Poi, una volta scoperte
le virtù terapeutiche delle nostre alghe, il nuovo paese andò sempre più
stagionalmente popolandosi di malati di sciatica, fanatici della bellezza,
semplici curiosi.
Tutti questi anni io li
ho vissuti trasportando persone lungo il nostro mare morto, fermandomi sempre
un po’ più a lungo nel punto in cui, nelle giornate limpide assenti di vento,
si può intravvedere sul fondo, ancora intatto il vecchio trattore tedesco di
mio zio Alfonso. Ho ripetuto mille volte la mia storia, spesso in un inglese
faticosamente appreso dai dischi, spiegando a tutti il perché della scritta
Mosè lungo il fianco della mia barca e considerando come in fin dei conti
l’aria di mare a me, rachitico , non abbia potuto farmi che bene.
Ma ancora adesso, che
gli anni cominciano a pesare , e meno senso si dà alle proprie vergogne, mi
riesce ancora difficile ammettere davanti a qualcuno, che quell'enorme pesce
trascinato a riva nell'estate del ’66, aveva gli stessi occhi atterriti di mio
padre nel momento stesso in cui si rese conto che stava arrivando l’onda.
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