domenica 11 maggio 2014

LA DIMENTIDANZA di Sabrina Carollo

Ci sono molti modi di danzare e molti motivi per farlo. Per divertimento, per passione, per sfogarsi, per far parte di qualcosa. Per amore di chi ci porta a ballare, per nascondersi nel gruppo. Per devozione: la danza è una religione a cui dedicarsi anima e corpo, a cui aderire con lo slancio di chi vuole celebrare la vita. C’è chi balla una sera soltanto, e chi invece si presenta sulla pista regolare come la morte. Chi è votato al cubo, chi preferisce mescolarsi nella confusione, diluendo i propri movimenti tra quelli degli altri come il lime nel rhum del mojito. C’è chi si muove appena, e non stacca i piedi da terra, limitandosi a spostare il peso da un lato all’altro del corpo, e c’è chi scioglie ogni muscolo e lascia che la corrente lo attraversi da cima a fondo. Ci sono i fanatici delle regole, dei balli organizzati, dei movimenti precisi e ci sono gli scomposti, abbandonati al ritmo tribale e completamente liberi. Ci sono i ballerini classici, prima, seconda, terza e quarta posizione e grand jeté e arabesque e e chi fa hip hop o break, o anche la salsa e quegli sculettamenti lì.
E poi c’è anche chi, come me, balla per dimenticare.
Ho deciso di chiamare il mio modo di intendere il ballo “dimentidanza”: la danza della dimenticanza. Con dimenticanza di solito si intende qualcosa di involontario, un meccanismo inceppato nella filigrana sottile e continua della memoria. Il mio invece è un moto intenzionale, un movimento finalizzato a perdere ogni traccia di pensiero. Comunque e sempre però, come recita l’etimologia, un uscire di mente. Trascinare fuori, estrarre dalla testa come un molare insidioso e ben radicato ma completamente cariato. Questo faccio, con la dimentidanza: ballo ed estirpo ricordi di lei.
Il meccanismo è semplice, l’ho mutuato dai sufi ma non si dica che li ho copiati - io per danzare uso l’industrial -. La musica parte, ossessiva e ritmata, e io comincio a girare, vorticando su me stesso senza interrompermi mai. Giro come una trottola fino a perdere l’equilibrio, talvolta chiudendo anche gli occhi, senza paura di cadere. Ogni tanto mi succede, ma con l’unico risultato di farmi scoppiare in una fragorosa risata. La terra mi riafferra e mi ricorda che è tutto inutile. E di questa beffa io rido, e rido e rido - un lattante di un metro e ottantatre che perde l’equilibrio e trova il pavimento. La mia danza è fatta solo di questo, di un continuo roteare fino a quando cado.
Non posso inciampare nell’arredamento, visto che la mia casa è ormai completamente vuota. Ho venduto tutto: il tavolo, la credenza, il grande armadio (troppo grande, l’ho sempre detto, ma lei aveva un sacco di roba), il letto. Un materasso funziona anche in terra, e delle altre cose mi serve ben poco. In compenso però ho tanto spazio per la mia dimentidanza.
Mentre giro, e giro, e giro, perdo coscienza di quello che è stato. Il suo viso scompare, le sue lunghe braccia, i riccioli come boccoli, la bocca, le dita, gli occhi bugiardi, i fianchi. Non rimane più niente, sono finalmente libero, sospeso dalla mia testa. E quella lama di coltello spezzata nello sterno che mi rende tanto difficile respirare svanisce come per magia.
Non siamo fatti per nuotare in profondità: ad andare troppo dentro nelle cose ci si fa male. E allora danzo per rimanere leggero, per sentire il sangue sfuggire dal centro verso l’esterno, come se volesse uscirmi dai polpastrelli e lasciarmi completamente esanime, asciugato, sottile e finalmente calmo.
Come un salasso, una medicazione salvifica: giro su me stesso e divento vapore. Smetto di capire, di pensare e soprattutto di sentire. Quando danzo non c’è più niente.




Nessun commento:

Posta un commento