Ci sono molti modi di
danzare e molti motivi per farlo. Per divertimento, per passione, per sfogarsi,
per far parte di qualcosa. Per amore di chi ci porta a ballare, per nascondersi
nel gruppo. Per devozione: la danza è una religione a cui dedicarsi anima e
corpo, a cui aderire con lo slancio di chi vuole celebrare la vita. C’è chi
balla una sera soltanto, e chi invece si presenta sulla pista regolare come la
morte. Chi è votato al cubo, chi preferisce mescolarsi nella confusione,
diluendo i propri movimenti tra quelli degli altri come il lime nel rhum del
mojito. C’è chi si muove appena, e non stacca i piedi da terra, limitandosi a
spostare il peso da un lato all’altro del corpo, e c’è chi scioglie ogni
muscolo e lascia che la corrente lo attraversi da cima a fondo. Ci sono i
fanatici delle regole, dei balli organizzati, dei movimenti precisi e ci sono
gli scomposti, abbandonati al ritmo tribale e completamente liberi. Ci sono i
ballerini classici, prima, seconda, terza e quarta posizione e grand jeté e
arabesque e e chi fa hip hop o break, o anche la salsa e quegli sculettamenti lì.
E poi c’è anche chi,
come me, balla per dimenticare.
Ho deciso di chiamare il
mio modo di intendere il ballo “dimentidanza”: la danza della dimenticanza. Con
dimenticanza di solito si intende qualcosa di involontario, un meccanismo
inceppato nella filigrana sottile e continua della memoria. Il mio invece è un
moto intenzionale, un movimento finalizzato a perdere ogni traccia di pensiero.
Comunque e sempre però, come recita l’etimologia, un uscire di mente.
Trascinare fuori, estrarre dalla testa come un molare insidioso e ben radicato
ma completamente cariato. Questo faccio, con la dimentidanza: ballo ed estirpo
ricordi di lei.
Il meccanismo è
semplice, l’ho mutuato dai sufi ma non si dica che li ho copiati - io per
danzare uso l’industrial -. La musica parte, ossessiva e ritmata, e io comincio
a girare, vorticando su me stesso senza interrompermi mai. Giro come una
trottola fino a perdere l’equilibrio, talvolta chiudendo anche gli occhi, senza
paura di cadere. Ogni tanto mi succede, ma con l’unico risultato di farmi
scoppiare in una fragorosa risata. La terra mi riafferra e mi ricorda che è
tutto inutile. E di questa beffa io rido, e rido e rido - un lattante di un
metro e ottantatre che perde l’equilibrio e trova il pavimento. La mia danza è
fatta solo di questo, di un continuo roteare fino a quando cado.
Non posso inciampare
nell’arredamento, visto che la mia casa è ormai completamente vuota. Ho venduto
tutto: il tavolo, la credenza, il grande armadio (troppo grande, l’ho sempre
detto, ma lei aveva un sacco di roba), il letto. Un materasso funziona anche in
terra, e delle altre cose mi serve ben poco. In compenso però ho tanto spazio
per la mia dimentidanza.
Mentre giro, e giro, e
giro, perdo coscienza di quello che è stato. Il suo viso scompare, le sue
lunghe braccia, i riccioli come boccoli, la bocca, le dita, gli occhi bugiardi,
i fianchi. Non rimane più niente, sono finalmente libero, sospeso dalla mia
testa. E quella lama di coltello spezzata nello sterno che mi rende tanto
difficile respirare svanisce come per magia.
Non siamo fatti per
nuotare in profondità: ad andare troppo dentro nelle cose ci si fa male. E
allora danzo per rimanere leggero, per sentire il sangue sfuggire dal centro
verso l’esterno, come se volesse uscirmi dai polpastrelli e lasciarmi
completamente esanime, asciugato, sottile e finalmente calmo.
Come un salasso, una
medicazione salvifica: giro su me stesso e divento vapore. Smetto di capire, di
pensare e soprattutto di sentire. Quando danzo non c’è più niente.
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